Le Autorità Amministrative Indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati
Date:
28 febbraio 2013 - 28 febbraio 2013

Introduzione
Presiede e coordina: Giorgio Giovannini
Presidente del Consiglio di Stato
Introduce:
Sergio Santoro
Presidente dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
1. Autorità, colleghi, signori gentilmente intervenuti, il compito che ho di introdurre l'argomento del convegno, senza sovrappormi alle dotte ed interessanti relazioni che seguiranno, mi suggerisce di sottolineare un profilo dell'indipendenza, principale caratteristica delle Autorità di cui discutiamo, che non è solitamente trattato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, pur rappresentando un aspetto centrale che caratterizza in positivo tali Amministrazioni, più di ogni altro rilievo circa le procedure di nomina e lo status dei loro componenti che, come noto, sono informati a tale essenziale e fondamentale principio.
Voglio alludere in particolare alla singolare natura e consistenza della fase istruttoria dei procedimenti affidati alle autorità indipendenti ed alla complessa ed autorevole organizzazione amministrativa che ne svolge il compito: caratteristiche rilevanti quest'ultime che, come vedremo, rafforzano sensibilmente e sono il vero pilastro dell'indipendenza nell'azione amministrativa di tali apparati pubblici, suggerendone un confronto critico e costruttivo con l’indipendenza costituzionalmente garantita alle magistrature d’ogni tipo.
2. Per chi, come me, transita ad un’Autorità indipendente come presidente o componente, provenendo dal Consiglio di Stato dopo avervi trascorso 35 anni ininterrotti nelle sezioni consultive giurisdizionali, appare immediatamente evidente che, differentemente dal sistema attraverso cui nella giustizia amministrativa si procede all'istruttoria dei singoli affari consultivi o giurisdizionali, nell’Autorità indipendente si procede all'attività istruttoria, nei vari procedimenti ad essa affidati, mediante un complesso apparato di mezzi e di uffici dedicato.
In pratica è come se, nell’Autorità indipendente, nella fase istruttoria sopravviva il modello ministeriale, mentre nella fase decisoria prevalga il modello giurisdizionale.
A tale proposito va ovviamente ricordato che le pronunce in sede di vigilanza, regolazione o segnalazione delle Autorità indipendenti non possono essere considerate giurisdizionali in senso stretto, dovendosene al contrario ribadire la natura amministrativa, anche in mancanza di una aggettivazione esplicita, e ciò per effetto del divieto di istituire nuove giurisdizioni speciali posto dall'art. 102, comma 2, della Costituzione.
3. Il paragone con l'istruttoria del processo amministrativo è stridente.
In quest'ultimo, nella maggior parte dei casi, l'istruttoria è affidata alle produzioni documentali delle parti ed alle relative memorie e difese.
Quando occorre integrare tali adempimenti spontanei, si ricorre all'ordinanze istruttorie, di solito unicamente nei confronti della parte pubblica o di altri parti pubbliche ritenute, spesso a torto, indipendenti dalla prima.
In ogni caso, ed è questo il più vistoso elemento di differenziazione, il giudice amministrativo non dispone di un proprio apparato per procedere autonomamente all'attività istruttoria.
Quando procede alle verifiche, richieste di informazioni e documenti, ispezioni, pareri, analisi statistiche ed economiche ed agli eventuali adempimenti connessi allo svolgimento del contraddittorio e della partecipazione procedimentale (come il deposito di memorie scritte e documenti o l’audizione delle parti), il giudice amministrativo si avvale in sostanza di uffici, soggetti od organizzazioni esterni.
Secondo l’art. 63 del D.Lgs. 2-7-2010 n. 104, il giudice amministrativo può utilizzare tutti i mezzi di prova che sono ammessi nel processo civile (con esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento, perché vi risultano comunque coinvolti uno o più interessi pubblici la cui tutela ed apprezzamento non possono essere rimessi alla disponibilità delle parti).
E così, il giudice può ordinare sia alle parti che a terzi di produrre in giudizio i documenti o qualunque altro elemento di prova che ritenga necessario; può disporre l’ispezione dei luoghi; può ordinare l’esecuzione di una verificazione, e cioè ordinare che venga riprodotta in modo imparziale la realtà di fatto che l’Amministrazione ha asserito esistente nei propri documenti, e può disporre una consulenza tecnica, e cioè ordinare ad un esperto di effettuare un riscontro in ordine alla correttezza delle affermazioni tecniche compiute dall’Amministrazione (il Codice del processo amministrativo prevede che la consulenza tecnica d’ufficio debba essere effettuata con il rispetto rigoroso del principio del contraddittorio, e cioè con il coinvolgimento dei consulenti tecnici nominati dalle singole parti).
Il giudice può anche disporre la prova per testimoni (e questa è una novità del Codice), ma soltanto se la medesima è richiesta dalle parti; in ogni caso la prova per testimoni può essere assunta soltanto mediante dichiarazioni scritte e ciò al fine di renderne più snella l’acquisizione.
Come si vede tutte queste attività sono tutte inevitabilmente delegate ad uffici o soggetti esterni, non essendovi alcun ufficio interno del giudice amministrativo competente a tali incombenti.
Se poi si procedesse ad analisi statistica, su quanto siano più frequenti determinate tipologie di prova nel processo amministrativo, si dovrebbe concludere che in massima parte l'attività istruttoria è, in definitiva, affidata alle parti pubblica e privata.
Il giudice amministrativo quindi quasi sempre forma il proprio convincimento circa la consistenza del fatto al suo esame, essenzialmente mediante le memorie e le produzioni documentali presentate dalle parti pubblica e privata.
4. Ben diverso è il sistema seguito dalle Autorità indipendenti, ed in particolare dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, nella fase istruttoria dei procedimenti ad esse affidati.
Per quanto riguarda l'autorità che rappresento, faccio notare che, al fine di esercitare i propri poteri, l’AVCP ha il potere dovere di svolgere una complessa ed approfondita attività istruttoria ed ispettiva ogni qualvolta ve ne sia l’esigenza.
Tale attività istruttoria, a seconda dei casi, può essere di carattere documentale, di carattere accertativo o di carattere valutativo.
L’Autorità può, infatti, richiedere a tutti i soggetti competenti (alle stazioni appaltanti, agli operatori economici esecutori dei contratti, alle SOA, ad ogni altra pubblica amministrazione e ad ogni ente, anche regionale, ovvero ad ogni operatore economico, sia esso persona fisica o giuridica), documenti, informazioni e chiarimenti relativamente ai lavori, servizi e forniture pubblici, in corso o da iniziare, al conferimento di incarichi di progettazione, agli affidamenti.
Può disporre perizie tecniche e analisi economiche e statistiche nonché la consultazione di esperti in ordine a qualsiasi elemento rilevante ai fini dell'istruttoria, nonché avvalersi del Corpo della guardia di Finanza - del quale, va ricordato, esiste al suo interno un importante nucleo guidato da un Generale di brigata e composto da 12 sottufficiali - per l’esecuzione di verifiche ed accertamenti.
In tal modo il legislatore ha esteso la capacità di indagine dell’Autorità, ampliando sia la categoria dei soggetti obbligati a fornire i documenti e le informazioni richieste, che gli strumenti istruttori di cui la stessa può discrezionalmente avvalersi.
Il potere di disporre ispezioni può essere esercitato d’ufficio o su istanza di qualsiasi parte interessata, e sono talora presi in esame anche gli esposti anonimi, se ritenuti circostanziati.
L’Autorità può sanzionare, con pena pecuniaria, chi ometta di fornire le informazioni richieste.
L’art. 8 comma 4 del codice dei contratti pubblici prescrive, in particolare, che tali poteri siano disciplinati con un regolamento dell’Autorità “nel rispetto dei principi della tempestiva comunicazione dell'apertura dell'istruttoria, della contestazione degli addebiti, del termine a difesa, del contraddittorio, della motivazione, proporzionalità e adeguatezza della sanzione, della comunicazione tempestiva con forme idonee ad assicurare la data certa della piena conoscenza del provvedimento, del rispetto degli obblighi di riservatezza previsti dalle norme vigenti”.
Pur riprendendo buona parte delle soluzioni già adottate da altre Autorità Indipendenti in relazione alla tutela del contraddittorio, è possibile segnalare alcune peculiarità.
In considerazione dell‘ampiezza dell’attività di vigilanza dell’AVCP, chiamata a controllare il rispetto del Codice da parte di tutte le stazioni appaltanti, il Regolamento dedica particolare attenzione alla programmazione dell’attività di vigilanza.
Il Regolamento prevede che l’attività di indagine segua, in primo luogo, un programma annuale deliberato dal Consiglio, rivolto all’esame di determinate problematiche o criticità.
Tale programmazione non esclude che il Dirigente Generale possa comunque attivare il procedimento d’ufficio o su istanza motivata di chiunque abbia interesse, al di là delle ipotesi di indagine programmata.
In altri termini se al Consiglio dell’Autorità compete un compito di direzione dell’attività di vigilanza, gli uffici godono comunque di una certa autonomia nell’esercitare l’attività di indagine.
In ossequio al principio della separazione fra funzioni istruttorie e decisorie, il Consiglio non interviene nella fase istruttoria, neanche per autorizzare l’attività ispettiva degli uffici, gestita, al pari della decisione di avvio del procedimento, dal Direttore Generale preposto al settore.
Le facoltà partecipative in sede istruttoria non si discostano da quelle della legge 241/90, salvo la previsione espressa della facoltà, per i destinatari della comunicazione di avvio del procedimento, di essere sentiti oralmente dagli uffici.
Il Consiglio interviene solo successivamente, con l’autorizzazione all’invio delle risultanze istruttorie formulate dagli uffici.
Da questa fase in poi si delinea un ulteriore contraddittorio con l’organo decisorio.
5. Può quindi concludersi che l'indipendenza di un organo debba valutarsi non soltanto per la particolarità dei procedimenti di nomina, o delle incompatibilità attuali e di prospettiva dei propri componenti, predisposte di volta in volta dal legislatore, ma debba viceversa essere verificata anche e soprattutto in relazione all'autonomia organizzativa e finanziaria degli organi preposti all'acquisizione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti dei singoli procedimenti.
L'indipendenza cui qui si fa riferimento è, in definitiva, un'indipendenza funzionale, nel senso che l’attività istruttoria alla quale il legislatore ritiene debba assicurarsi la massima autonomia ed integrità, non possa che svolgersi attraverso organi distinti dalle parti interessate, allocati presso la stessa Autorità indipendente, e soprattutto nominati in via permanente (e non episodica, come avviene per i consulenti tecnici).
Soltanto una dirigenza competente, preparata ed autonoma, preposta in via permanente agli uffici, può assicurare l'effettività dell'indipendenza dell'Autorità.
Convegno 28 febbraio 2013
Le Autorità Amministrative Indipendenti
Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati
Palazzo Spada - Piazza Capo di Ferro, 13 Roma.
Indipendenza e autonomia delle autorità
Intervengono:
Marcello Clarich
Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Roma Luiss – ‘G. Carli’.
Il fenomeno delle autorità indipendenti, emerso, com’è noto, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si è ormai consolidato nel nostro ordinamento.
Inizialmente era addirittura messa in dubbio la costituzionalità del modello, per il fatto che la Costituzione attribuisce al Governo e ai singoli ministri la responsabilità politica e amministrativa degli apparati (art. 95 Cost.).
La stessa presenza di poteri pubblici indipendenti veniva ritenuta come poco compatibile con il cosiddetto primato della politica.
Non a caso le segnalazioni al Parlamento e al Governo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in relazione a disegni di legge contenenti disposizioni distorsive del mercato venivano considerate come interferenze indebite nelle prerogative del legislatore.
Col tempo il modello delle autorità indipendenti si è consolidato, nonostante alcuni interventi legislativi nazionali che hanno ritrasferito ai ministeri competenze attribuite alle autorità (come nel caso dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas rispetto alla quale il ministero di settore, in base alla legge n. 239/2004, può addirittura ricorrere allo strumento dell’avvalimento per esercitare alcuni propri compiti).
Di recente, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha visto negli ultimi anni un significativo ampliamento del proprio campo di intervento in particolare nei settori delle pratiche commerciali scorrette in base al Codice del consumo approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, dei conflitti di interessi relativi ai titolari di cariche di governo in base alla legge 20 luglio 2004, n. 215, dei servizi pubblici locali in base all’art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n.138, ora peraltro dichiarato in parte incostituzionale.
Da ultimo le è stato attribuito un potere inedito di impugnare innanzi al giudice amministrativo i regolamenti e gli atti amministrativi emanati da tutte le pubbliche amministrazioni che siano lesivi della concorrenza (art. 21-bis della legge n. 287/1990 aggiunto dal d.l. 6 dicembre 2011, n. 210)), rafforzando così il potere di segnalazione.
Anche il settore dei trasporti ferroviario, portuale, aeroportuale e autostradale ha visto istituita di recente (art. 36 della legge 24 marzo 2012, n. 27) una nuova autorità, anche se ad oggi non sono stati nominati i componenti dell’organo collegiale.
L’indipendenza delle autorità è stata rafforzata soprattutto grazie a una serie di direttive e regolamenti europei (per esempio, in materia di energia elettrica e gas o, nel 2010, di istituzione di nuove agenzie europee in materia finanziaria) che hanno precisato sempre più che il concetto di indipendenza delle autorità di regolazione europee e nazionali deve essere attuato sia nei confronti dei governi nazionali, sia nei confronti delle imprese, contro il rischio della cosiddetta “cattura” del regolatore da parte dei soggetti regolati.
Si pensi in particolare al Regolamento (UE) 24 novembre 2010 n. 1093 che ha istituito l’Autorità bancaria europea il quale in una pluralità di disposizioni garantisce l’indipendenza degli organi del nuovo apparato e cioè il Consiglio delle autorità di vigilanza, il Consiglio di amministrazione, il Presidente i quali non possono chiedere né ricevere istruzioni da parte di istituzioni dell’Unione o di Governi degli stati membri o da altri soggetti pubblici o privati (artt. 42, 46 e 49).
Del resto, alcune autorità e prima di tutte la Banca d’Italia, in quanto componente del Sistema europeo di banche centrali (SEBC), godono di un livello di indipendenza che è garantito dai Trattati (art. 282 e seg. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea).
In materia di privacy, il rispetto della normativa europea è “soggetto al controllo di autorità indipendenti” (art. 16, comma secondo, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea).
Le autorità nazionali di regolazione dei servizi pubblici operano in modo coordinato all’interno di una rete di regolatori indipendenti al cui vertice si pongono agenzie europee, come, per esempio, l’Agenzia europea per la cooperazione dei regolatori dell’energia (ACER) presso la quale opera anche un “Consiglio dei regolatori europei dell’energia (CEER).
Nel settore delle comunicazioni elettroniche, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni fa parte dal 2009 dell’Organismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche (BEREC) che assiste la Commissione europea nello sviluppo di questo mercato creando un collegamento tra quest’ultima e le autorità nazionali ((Regolamento n. 1211/2009).
L’indipendenza dei regolatori europei si riverbera sull’indipendenza dei regolatori nazionali atteso che i primi hanno di regola il potere di indirizzare “orientamenti” o “raccomandazioni” ai secondi i quali devono conformarsi in linea di principio alle indicazioni ricevute.
La rete dei regolatori nazionali risulta così più schermata da altro tipo di influenze esterne, da parte di soggetti pubblici o privati, a livello nazionale.
E’ stata anche rafforzata l’indipendenza finanziaria attraverso la previsione di meccanismi di autofinanziamento delle singole autorità a carico delle imprese controllate (per esempio l’art. 10-ter della legge n. 287/1990, aggiunto dal d.l. n. 1/2012, per quanto riguarda l’Autorità garante della concorrenza e del mercato).
Qualche dubbio sull’indipendenza effettiva delle autorità è emerso in relazione alla prassi relativa alle nomine che ha portato in alcuni casi alla scelta di componenti dei collegi che con tutta probabilità non rispettano pienamente i requisiti di professionalità e di indipendenza posti dalle leggi istitutive.
Su questo tema molto delicato si pone anzitutto la questione dell’impugnabilità degli atti di nomina (che il Tar del Lazio, Sez. I, con sentenza 5 marzo 2012, n. 2223 ha ritenuto possibile) e dei limiti del sindacato del giudice amministrativo su provvedimenti che hanno natura ampiamente discrezionale.
Dubbia è anche la scelta recente del legislatore (art. 3 del d.l. 201/ 2011) di ridurre a tre il numero dei componenti dei collegi delle autorità, tenuto conto che la collegialità costituisce un fattore importante per promuovere l’indipendenza dell’istituzione e l’imparzialità delle decisioni.
L’ottica della spending review che è stata alla base di questa scelta sembra davvero miope.
Complessivamente, il bilancio del modello, ormai a distanza di un numero significativo di anni, è senz’altro positivo, pur con qualche limitata posta negativa, e le prospettive addirittura di un’ulteriore espansione.
Infatti, da un lato, nuove autorità stanno emergendo e, dall’altro, è in atto il rafforzamento ulteriore delle garanzie di indipendenza di alcune autorità già esistenti.
Una nuova autorità, che gode addirittura di un rango costituzionale, è stata istituita nel campo della finanza pubblica e del rispetto dei vincoli del cosiddetto Patto di stabilità.
Infatti la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 non solo ha sostituito integralmente l’art. 81 della Costituzione rafforzando il vincolo del pareggio di bilancio, ma ha anche istituito un organismo indipendente responsabile a livello nazionale dell’osservanza dei vincoli comunitari in materia di finanza pubblica (art. 5).
La legge costituzionale è stata approvata in esecuzione dell’impegno assunto dall’Italia di introdurre, di preferenza a livello costituzionale, il principio del pareggio di bilancio.
Questo impegno è previsto per gli Stati aderenti al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’unione economica e monetaria (TSCG, il quale contiene al suo interno il c.d. Fiscal Compact) firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012 da venticinque Stati membri aderenti all’area euro ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013.
Il Trattato prevede l’istituzione negli Stati membri di un siffatto organismo indipendente le cui funzioni sono state illustrate in una Comunicazione della Commissione Europea del 20 giugno 2012 (COM(2012) 342 final).
In attuazione di queste disposizioni, la legge n. 243/2012 attuativa dell’art. 81, comma 6, della Costituzione ha istituito presso le Camere l’Ufficio parlamentare di bilancio “per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio” (art. 16).
Si tratta di un ufficio concepito appunto sul modello delle autorità indipendenti, costituito da un Consiglio di tre membri nominati dai presidenti della Camera e del Senato nell’ambito di un elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza di due terzi (così da garantire una rappresentanza delle minoranze parlamentari).
I componenti sono scelti tra persone di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza e durano in carica sei anni, senza possibilità di essere rinnovati. La revoca della nomina è limitata ai casi di gravi violazioni dei doveri d’ufficio.
Tra i poteri dell’Ufficio, che gode di ampia autonomia organizzativa, va segnalato quello di fornire le proprie valutazioni in merito agli scostamenti negativi del saldo strutturale rispetto alle previsioni tali da richiedere l’attivazione dei meccanismi di correzione richiesti dall’ordinamento europeo (art. 18).
I rapporti tra l’Ufficio e il Governo sono strutturati, come chiarisce la Comunicazione della Commissione europea attuativa del Trattato sopra citata, secondo il modello in base al quale gli Stati hanno “l’obbligo di rispettare le valutazioni delle suddette istituzioni, o in alternativa di spiegare pubblicamente perché non le stanno osservando” (cosiddetto modello regolatorio del “comply or explain” adottato a livello europeo in molti contesti).
In concreto, qualora l’Ufficio “esprima valutazioni significativamente divergenti rispetto a quelle del governo (…), quest’ultimo illustra i motivi per i quali ritiene di confermare le proprie valutazioni ovvero ritiene di conformarle a quelle dell’Ufficio” (art. 18, comma 3). L’attivazione di questo meccanismo avviene su richiesta di almeno un terzo dei componenti di una commissione parlamentare competente in materia di finanza pubblica.
Come si è già accennato, in parallelo all’istituzione di nuove autorità, è in atto un processo di rafforzamento di autorità esistenti delle quali vengono rafforzate le garanzie di indipendenza.
Il riferimento è all’Istituto nazionale di statistica che, già in base al Dpr 7 settembre 2010, n. 166 “Regolamento recante il riordino dell’Istituto nazionale di statistica”, deve svolgere la propria attività secondo “i principi di indipendenza scientifica, imparzialità, obiettività, affidabilità, qualità e riservatezza dell’informazione statistica dettati a livello europeo e internazionale” (art. 2).
L’Istat inoltre esercita i propri compiti anche “al fine di recepire i principi contenuti nella raccomandazione della Commissione europea del 25 maggio 2005 relativa alla indipendenza, all’integrità e alla responsabilità delle autorità statistiche nazionali e comunitarie” (art. 2, comma 2).
Anche in questo caso il rafforzamento dell’indipendenza è reso necessario per effetto dell’inserimento dell’ISTAT nel sistema europeo.
E’ maturato infatti il convincimento a livello europeo che una corretta rappresentazione indipendente dei dati, specie quelli relativi allo stato della finanza pubblica, è fondamentale ai fini di un’integrazione finanziaria ed economica più stretta a livello europeo.
La Comunicazione europea del 2005 (Codice delle statistiche europee), sopra citata, infatti, enuncia una serie di principi, tra i quali quello dell’indipendenza professionale delle autorità statistiche “da ogni interferenza esterna, politica o di altra natura”.
L’attuazione di questo principio richiede che l’indipendenza sia sancita dalla legge, che il direttore dell’autorità statistica possieda “la più alta caratura professionale”, che spetti esclusivamente a quest’ultimo decidere in merito ai metodi, alle norme e alle procedure in campo statistico, nonché al contenuto e al calendario delle diffusioni statistiche.
L’indipendenza professionale è enunciato come principio della statistica nel Regolamento (CE) 11 marzo 2009, n. 222. Secondo l’art. 2 del Regolamento “le statistiche devono essere sviluppate, prodotte e diffuse in modo indipendente”.
A livello europeo questo principio è stato attuato con riguardo all’Eurostat, cioè all’autorità statistica dell’Unione, attribuendo garanzie di indipendenza particolari, incluso il divieto di chiedere o ricevere istruzioni da istituzioni dell’Unione e governi degli Stati membri, al Direttore generale (art. 7).
Sulla base delle indicazioni comunitarie la recente legge sull’Agenda digitale (art. 3 del d.l. n. 179/2012 convertito in legge n. 221/2012) ha attribuito una delega al Governo a emanare un regolamento di delegificazione teso a “rafforzare l’indipendenza professionale dell’ISTAT e degli enti e degli uffici di statistica del SISTAN”.
In attesa che venga emanato il provvedimento attuativo sembra ormai acquisita la trasformazione dell’ISTAT in autorità indipendente in senso proprio.
In conclusione, il modello delle autorità indipendenti in Europa e negli Stati membri dell’Unione europea sembra essere diventato il modello standard dell’organizzazione di molte funzioni pubbliche correlate a valori che non possono essere rimessi a decisioni politiche di corto respiro, sia in relazione agli interessi di lungo periodo della comunità, sia in relazione all’impatto che può avere l’attività delle autorità a livello ultrastatale.
Questa spinta all’indipendenza della regolazione, tuttavia, ripropone in termini rinnovati il problema della legittimazione democratica delle autorità sia a livello europeo sia a livello nazionale.
Da questo punto di vista, stanno emergendo nuovi strumenti di raccordo tra le autorità europee e nazionali e i parlamenti europeo e nazionali.
Così, per esempio, la recentissima proposta del Consiglio europeo di trasferire poteri di vigilanza molto incisivi sugli istituti di credito alla Banca centrale europea, che potrà avvalersi delle autorità di vigilanza nazionali (in Italia, la Banca d’Italia) per svolgere i propri compiti (ispezioni, raccolta di informazioni, ecc.) prevede in parallelo un coinvolgimento diretto dei Parlamenti nazionali nel monitoraggio sull’attività della Banca centrale europea.
I Parlamenti nazionali potranno addirittura richiedere un confronto diretto in audizione del presidente della Banca Centrale europea o un suo delegato.
L’indipendenza delle autorità non significa dunque una loro sottrazione a ogni forma di controllo esterno.
Il problema è se mai quello di calibrare i controlli alla natura delle funzioni esercitate dalle autorità e di evitare una scissione totale dai meccanismi della democrazia rappresentativa a livello nazionale ed europeo.
E su questo versante c’è ancora spazio per individuare soluzioni innovative sia a livello europeo sia a livello nazionale.
La regolazione dei mercati fra autorità indipendenti nazionali ed organismi europei
Luisa Torchia
Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Roma Tre.
1. La regolazione indipendente nell’equilibrio dei poteri
La connessione fra regolazione e autorità indipendenti è molto stretta sia nell’esperienza giuridica, sia nella riflessione scientifica.
Le autorità indipendenti nascono appunto per regolare attività, o settori o, secondo la denominazione oggi corrente, mercati.
In alcuni ordinamenti, come ad esempio quello americano, la regolazione si caratterizza come un fenomeno di estensione della disciplina pubblica: comportamenti una volta lasciati alla libera autodeterminazione dei soggetti interessati o alla negoziazione vengono assoggettati a regole pubbliche, valide per tutti e volte a tutelare non solo gli interessi regolati, ma anche interessi di terzi (gli utenti, i consumatori, più in generale gli stakeholders).
In altri ordinamenti, ad esempio in Europa e sicuramente in Italia, la regolazione si presenta, invece, come sostitutiva di un intervento pubblico più penetrante ed intrusivo: lo Stato imprenditore si trasforma in Stato regolatore e le medesime regole si applicano alle imprese pubbliche come alle imprese private.
E’ proprio la connessione fra i due fenomeni ad aver attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno subito rilevato la peculiarità della regolazione indipendente rispetto agli schemi tradizionali di inquadramento delle istituzioni e dei poteri.
Questa linea di indagine ha portato ad interrogarsi sulla riconducibilità della regolazione e delle autorità indipendenti entro gli schemi tradizionali, enfatizzando di volta in volta gli elementi di corrispondenza o, invece, gli elementi di discordanza.
Il confronto fra i modelli interpretativi prevalenti ed il fenomeno della regolazione indipendente si è concentrato soprattutto su quattro aspetti: la collocazione istituzionale, la natura e la valenza della regolazione, la natura e la valenza dei poteri di controllo e di sanzione, la conformazione dell’interesse pubblico oggetto di tutela.
Il tema della collocazione delle autorità indipendenti rispetto al circuito politico-rappresentativo porta direttamente alla questione della legittimazione delle stesse autorità, che deve necessariamente trovare una base diversa da quella del tradizionale rapporto principal-agent fra politica e amministrazione.
Al contrario, è proprio l’indipendenza del regolatore a legittimare la sua azione, che deve essere, e apparire, non solo imparziale, ma neutrale rispetto agli interessi in gioco.
Di qui l’individuazione, soprattutto ad opera della giurisprudenza del Consiglio di Stato, di una legittimazione di natura procedurale, assicurata mediante la partecipazione ed il contraddittorio nel procedimento di formazione delle regole e, di converso, la costruzione di un sindacato giurisdizionale via via meno timido e più intenso, che ha consentito di dire che le autorità indipendenti, pur non essendo soggette a specifici controlli, sono purtuttavia “under control”, non potendo sottrarsi al giudizio sui loro atti (e l’imponente contenzioso in materia dimostra che il ricorso al giudice da parte degli interessati è tutt’altro che raro).
Anche il secondo profilo, relativo alla natura e alla valenza della regolazione di settore, è connesso ad un tema di carattere generale: le fonti del diritto e l’inserimento, nel sistema delle fonti, degli atti delle autorità indipendenti.
Il problema si pone, naturalmente, in modo diverso per ciascuna autorità: basti pensare alle differenze fra gli atti dell’Autorità antitrust rispetto agli atti delle autorità di settore e, fra queste ultime, agli atti della Banca d’Italia rispetto alle altre autorità, o agli atti dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, ai quali ultimi non sempre viene riconosciuta natura cogente.
L’inserimento nel sistema delle fonti degli atti delle autorità indipendenti è stato, per un verso, facilitato dalla possibilità di richiamare i regimi giuridici, pienamente consolidati, dei regolamenti e dei provvedimenti amministrativi e, per altro verso, reso più difficile dalla tendenza delle autorità indipendenti ad invocare (e praticare) l’esercizio di poteri impliciti, che potrebbero trarsi dalle finalità generali perseguite, pur in assenza di espressa attribuzione.
Quanto alla natura dei poteri attribuiti ed esercitati, è apparsa agevole la loro collocazione entro le categorie tradizionali dell’indirizzo, della vigilanza e della potestà sanzionatoria, se pur con significative differenze fra le diverse autorità.
Oggetto di opzioni ermeneutiche divaricate è, invece, l’individuazione della struttura dell’interesse pubblico tutelato, ricondotta da alcuni alla struttura classica dell’interesse pubblico perseguito da qualsiasi amministrazione pubblica e alle altrettanto tradizionali relazioni con gli interessi privati e ricostruita da altri, invece, come un diverso tipo di interazione fra gli interessi in gioco, che fa emergere un interesse pubblico riflesso e indiretto, non assimilabile agli interessi pubblici perseguiti, appunto, con le politiche pubbliche e la loro attuazione da parte delle tradizionali amministrazioni pubbliche.
Il tentativo di inserire la regolazione e le autorità indipendenti negli schemi interpretativi classici corre, però, il rischio di restituire una lettura deformata del fenomeno.
Esso può essere esaminato, invece, non come una deviazione rispetto ai modelli tradizionali, ma piuttosto come il segno di nuovi sviluppi e tendenze del sistema istituzionale nel suo complesso.
La prima tendenza rilevante e ormai sempre più evidente per il suo carattere di generalità è la definitiva perdita di capacità ordinatrice del principio di separazione dei poteri.
Da tempo le interpretazioni più schematiche sono state abbandonate in tutti gli ordinamenti, nella consapevolezza che le Costituzioni contemporanee sono ispirate a modelli di equilibrio fra i poteri, più che di separazione e il tentativo di far coincidere soggetti e funzioni (legislativa, esecutiva, giurisdizionale) è destinato a scontrarsi con l’infinita varietà dell’esperienza giuridica concreta.
In tutti gli ordinamenti, inoltre, almeno nel mondo occidentale, i pubblici poteri contemporanei sono caratterizzati da un accentuato processo di differenziazione degli apparati governativi e dalla diffusione di istituzioni non maggioritarie, poste al di fuori della logica principal-agent.
La diffusione di questa tendenza è dovuta a numerosi fattori, fra i quali rilevano in particolare, per il tema qui affrontato, la crescente sostituzione di politiche di intervento con politiche di regolazione e la dimensione sempre più frequentemente sovranazionale sia della regolazione delle più importanti attività economiche – la finanza, le infrastrutture, i contratti pubblici – sia della tutela dei diritti individuali e dei beni collettivi primari (la salute, l’ambiente, i beni culturali).
Importanti trasformazioni si sono verificate anche per quanto riguarda la regolazione di settore.
La struttura tipica degli ordinamenti sezionali, così acutamente ricostruita da Massimo Severo Giannini e da Mario Nigro, caratterizzata innanzitutto da barriere all’ingresso e da un rapporto assai stretto fra l’amministrazione posta al vertice dell’ordinamento sezionale ed i soggetti operanti all’interno del medesimo ordinamento, si è evoluta verso regimi di regolazione aperti, caratterizzati dal libero accesso al mercato regolato e da una posizione arbitrale, più che di governo, dell’autorità indipendente preposta alla regolazione del mercato.
La regolazione viene sempre più spesso codificata – si pensi al codice dei contratti pubblici o al codice delle comunicazioni elettroniche, al testo unico bancario, al testo unico della finanza – e le regole sono il frutto di una integrazione europea sempre più stretta, che diffonde parametri e strumenti simili in tutti gli ordinamenti nazionali e obbliga e sottopone le discipline nazionali ad un continuo test di conformità e compatibilità con il diritto europeo.
L’interesse pubblico, infine, non si identifica più necessariamente con una politica da perseguire, ma più spesso con un equilibrio da garantire – come, ad esempio, la parità fra i concorrenti, fra l’operatore e il cliente, fra il gestore e il consumatore - tramite una serie di obblighi, che gli operatori sono chiamati a rispettare e il cui adempimento è oggetto della vigilanza dell’autorità indipendente competente.
Il mercato è, appunto, regolato e non governato e la scelta delle condotte da tenere è rimessa all’autonomia degli operatori entro un quadro volto principalmente alla tutela della concorrenza.
2. La regolazione indipendente nell’esperienza giuridica
In questo nuovo assetto occorre allora guardare alle autorità indipendenti, più che per misurarne la distanza dai modelli tradizionali, per verificarne i caratteri propri e distintivi e per riflettere sulle ragioni per la loro diffusione, sia negli ordinamenti nazionali, sia nell’ordinamento europeo, in una dimensione sovranazionale.
Così spostato il fuoco dell’analisi, emergono alcune caratteristiche delle autorità indipendenti che possono spiegare, almeno in parte, i “vantaggi comparativi”, per così dire, che l’istituzionalizzazione della regolazione indipendente presenta rispetto ai modelli amministrativi tradizionali.
La regolazione indipendente consente, innanzitutto, una produzione di regole unitaria e coerente nell’ordinamento nazionale e sempre integrata nell’ordinamento europeo.
Si tratta di un vantaggio significativo rispetto alla impossibilità di coordinare la produzione legislativa dei parlamenti nazionali e, più in generale, di fronte alla crisi di un potere legislativo sempre più frammentato nell’esercizio e sempre più incoerente negli esiti (non solo in Italia, anche se l’esperienza italiana raggiunge picchi di incoerenza e vera e propria turbolenza normativa che creano una incertezza costante sulle regole applicabili).
La produzione delle regole dispone, inoltre, di fattori di legittimazione e di stabilizzazione delle regole che sorreggono la coerenza di sistema ed attenuano il rischio regolatorio, dipendente soprattutto da modifiche continue e incoerenti, connesse alla contingenza politica o al variare delle maggioranze.
Le regole vengono prodotte, infatti, attraverso procedimenti di consultazione e di notice and comment che consentono una partecipazione ampia ed informata di tutti gli interessi in gioco.
Le regole non possono essere modificate senza una previa analisi di mercato, volta a verificare la ratio e l’impatto delle modifiche.
Le regole così prodotte possono sempre essere sottoposte al sindacato giurisdizionale che, come si è detto in precedenza, è divenuto via via più penetrante e completo.
La regolazione indipendente è, poi, sempre meno nazionale e sempre più il frutto di una stretta integrazione europea e, in alcuni casi, globale (si pensi alle regole sui mercati finanziari).
La continua interazione con le autorità di regolazione di altri paesi e con il diritto europeo e globale attenua la tendenza, propria di ogni istituzione nazionale, a cucire le regole sul vestito del mercato nazionale e consente quindi che lo stesso mercato nazionale non sia un’area ristretta e in sé conchiusa, ma sia integrato nel mercato interno europeo e, per alcuni aspetti, nel mercato globale.
Anche questo fattore contribuisce a produrre una coerenza interna della regolazione indipendente e a ripararla, almeno in parte, dalle contingenze politiche di ogni singolo ordinamento.
Da ultimo, nella produzione della regolazione indipendente prevale una cultura professionale, legata allo specifico mercato oggetto di regolazione, a differenza di quanto avviene negli apparati amministrativi tradizionali, nei quali va ormai prevalendo una cultura manageriale.
Non è qui la sede per discutere vantaggi e svantaggi dei due tipi di cultura, ma si può osservare che la cultura manageriale porta frequentemente con sé l’indifferenza alle specificità del fenomeno da gestire e la convinzione che vi sia un insieme di regole – o di buone pratiche, secondo l’ultima moda – sempre liberamente trasferibili dal settore privato al settore pubblico e indistintamente applicabili all’esercizio di qualsiasi funzione pubblica (con risultati, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, per ora assai modesti).
La regolazione indipendente si fonda, invece, almeno in ipotesi, ancora sul principio secondo il quale la conoscenza specialistica è una precondizione di un’attività istituzionale coerente ed efficace.
3. La regolazione indipendente e il processo di integrazione europea
Queste caratteristiche delle regolazione e delle autorità indipendenti sono allo stesso tempo rafforzate dall’integrazione europea e trovano in essa nuovi sviluppi.
Il diritto europeo si è sempre basato, per la sua attuazione ed applicazione, prevalentemente sulle amministrazioni e sulle corti nazionali e, anche per questa ragione, ha spesso suggerito, promosso o, in alcuni casi, imposto l’istituzione di autorità indipendenti.
Il diritto europeo è, infatti, prodotto anche grazie al contributo degli Stati membri e, una volta prodotto, viene fatto proprio da ciascuno Stato membro attraverso meccanismi di applicazione diretta o di recepimento, ma nessuno Stato membro può, singolarmente, disporre del diritto europeo o modificarlo.
I processi di attuazione e di applicazione si svolgono, però, entro ordinamenti nazionali consolidati, caratterizzati da tradizioni istituzionali e giuridiche risalenti e stratificate, e la possibilità di variazioni, difformità o veri e propri disallineamenti è sempre presente.
Il ricorso ad autorità indipendenti fornisce al diritto europeo una doppia garanzia.
Per un verso, la distanza fra autorità indipendenti ed autorità politiche nazionali riduce l’influenza che queste ultime riescono ad esercitare sulla concreta applicazione ed attuazione del diritto europeo, almeno sui mercati regolati, che sono terreno privilegiato per la costruzione e lo sviluppo del mercato interno europeo, per le libertà di circolazione e per la tutela della concorrenza.
Per altro verso, le autorità indipendenti riproducono, nei diversi ordinamenti nazionali caratteristiche istituzionali comuni, culture professionali condivise, strumenti di azione uniformi.
Esse traggono dalla dimensione europea un ulteriore fattore di legittimazione, che si rafforza tanto più quanto più i regolatori nazionali si organizzano in reti europee, che consentono una continua interazione non solo fra il livello europeo e il livello nazionale, ma anche fra i diversi ordinamenti nazionali, con lo sviluppo di forme e strumenti di collaborazione orizzontali.
L’importanza e la rilevanza di queste reti europee di regolatori, quasi sempre sorte, in un primo momento, come strumenti informali e volontari di collaborazione e di coordinamento, è provata dalla recente istituzione di nuovi organismi di regolazione europei, che proprio da quelle reti traggono origine.
La presenza di veri e propri regolatori europei sta modificando in profondità l’assetto precedente, pur con modalità diverse da settore a settore.
In alcuni casi si assiste alla creazione di un doppio livello di regolazione, con la contemporanea operatività di un regolatore comune e di un regolatore europeo, come ad esempio in materia di energia, mentre in altri casi sembra configurarsi con un deciso sviluppo del regolatore europeo, che tende ad inglobare al suo interno la rete dei regolatori nazionali, come almeno in parte sta accadendo per i mercati finanziari (basti pensare ai passi fatti verso un meccanismo di supervisione unico nel settore bancario).
Con l’istituzione degli organismi di regolazione europei il carattere dell’indipendenza ha acquisito una nuova dimensione, perché esso viene predicato, nei regolamenti istitutivi, non solo nei confronti degli Stati membri, ma anche nei confronti della Commissione europea.
L’attribuzione di uno statuto indipendente agli organismi di regolazione indica quindi, almeno potenzialmente, l’evoluzione da un sistema di regolazione composita - entro i quale i regolatori nazionali e la Commissione interagivano strettamente, mantenendo però ferma la distinzione di attribuzioni e la divisione delle competenze - ad un sistema di regolazione integrata, nel quale si supera il sistema dualistico e si crea un centro di imputazione unitaria della regolazione europea di settore.
Una prima valutazione dei risultati raggiunti e dei possibili sviluppi si può trovare nei rapporti del Fondo monetario internazionale (ad esempio, IMF, European Securities and Markets Authority.
Technical Note, marzo 2023) dai quali emerge con chiarezza come i nuovi organismi di regolazione stiano cercando uno spazio proprio per l’esercizio indipendente dei poteri di regolazione e di vigilanza loro attribuiti, in un quadro istituzionale affollato di istituzioni nazionali ed europee.
4. Il ruolo dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici fra ordinamento nazionale ed ordinamento europeo.
L’estensione e la profondità del processo di sviluppo di nuove istituzioni europee con riferimento ai mercati regolati si può cogliere anche guardando alla esperienza dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (AVCP).
Nonostante le profonde differenze fra i diversi ordinamenti nazionali, che non sempre prevedono un’autorità indipendente in materia, già da quasi un decennio opera la Rete europea per gli appalti pubblici, quale strumento di coordinamento tra le autorità nazionali.
La natura informale della Rete non ha impedito la partecipazione della Commissione, che sostiene direttamente le attività della Rete, ritenendole utili ai fini della più ordinata e completa attuazione del diritto europeo in materia di contratti pubblici.
La principale missione della Rete consiste nella risoluzione informale delle dispute transfrontaliere in materia di appalti, nel miglioramento dell’applicazione delle norme sugli appalti pubblici, nella diffusione delle best practices e in attività di benchmarking.
L’attività di cooperazione fra gli Stati membri si è rafforzata con la recedente adozione di un regolamento operativo, che ha disegnato una nuova struttura della Rete.
E’ certamente troppo presto per dire se anche la Rete europea per gli appalti pubblici seguirà lo stesso percorso di sviluppo che hanno conosciuto le reti fra regolatori nazionali nei mercati, ad esempio, delle comunicazioni elettroniche e dell’energia, con un approdo finale alla costituzione di veri e propri organismi di regolazione europei, con propria valenza istituzionale e funzionale.
Sul versante nazionale, l’AVCP applica direttamente – in misura ben maggiore rispetto ad altre autorità di settore - un diritto europeo consolidato e integrato e svolge, quindi, il ruolo di tutore, per così dire, della disciplina europea dei contratti nell’ordinamento nazionale.
Sotto questo profilo si tratta di un ruolo più simile a quello dell’Autorità antitrust, forse, che non a quello delle autorità di regolazione in senso proprio e, anzi, proprio l’eventuale attribuzione di potestà regolative in senso proprio è ancora oggi oggetto di dibattito.
Il ruolo dell’AVCP si caratterizza, peraltro, in ragione soprattutto dei soggetti ai quali si rivolge la sua attività, in quanto essa vigila sulle amministrazioni pubbliche – in veste di stazioni appaltanti - oltre che sui privati e, anzi, forse proprio soprattutto sulle amministrazioni pubbliche, dai cui comportamenti dipende la esatta e completa attuazione del diritto comunitario in materia.
La vigilanza si esplica, dunque, sulle amministrazioni come soggetti del mercato e, quindi, su un ruolo che per le amministrazioni pubbliche non è consueto, come dimostrano, del resto, i mille diversi tentativi di sfuggire o eludere le logiche di mercato e di ricorrere ad affidamenti diretti o comunque di rispettare solo in misura parziale le condizioni di trasparenza e concorrenza.
La questione centrale per l’AVCP non sembra dunque tanto la “conquista” di potei di regolazione, ma la costruzione e lo sviluppo della capacità, già dimostrata e crescente negli ultimi anni di attività, di creare una cultura tecnica ed amministrativa delle regole di mercato, di forgiarne gli strumenti per metterli a disposizione delle amministrazioni, di dimostrarne l’efficacia tanto sotto il profilo dell’imparzialità quanto sotto il profilo del buon andamento.
Troppo spesso, infatti, l’applicazione delle regole sui contratti pubblici è dominata da un approccio formalistico, stigmatizzato anche da quella giurisprudenza che ha espressamente escluso che la finalità del sindacato giurisdizionale sia la “caccia all’errore” formale nello svolgimento della gara e non invece la verifica del rispetto delle regole di trasparenza e di concorrenza.
Le amministrazioni pubbliche hanno bisogno di costruire e sviluppare la propria capacità di scegliere, decidere e negoziare, senza che la necessaria discrezionalità scada, per un verso, in arbitrio e, per altro verso, nella mera applicazione di automatismi che raramente approdano alla scelta del miglior contraente, del miglior prodotto o del miglior servizio o, in una parola, della qualità dei contratti pubblici.
Il contributo migliore che l’AVCP, in quanto autorità indipendente, ha dato e può continuare a dare è la costruzione e l’ammodernamento della capacità amministrativa e tecnica delle stazioni appaltanti, quali soggetti di mercato capaci di scegliere e di decidere e, quindi di utilizzare correttamente ed efficientemente le ingenti risorse pubbliche destinate all’acquisto di lavori, beni e servizi.
Convegno 28 febbraio 2013
Le Autorità Amministrative Indipendenti
Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati
Palazzo Spada - Piazza Capo di Ferro, 13 Roma
La funzione di vigilanza e regolazione indipendente dei mercati
Alberto Zito
Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Teramo
‘La funzione di vigilanza e regolazione indipendente dei mercati’
Poteri impliciti delle autorità indipendenti e principi di legalità e buon andamento
Giuseppe Morbidelli
Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Roma ‘La Sapienza’.
La tematica dei poteri impliciti attiene alla teoria generale del diritto.
E anzi è una tematica classica, che si incontra tutte le volte in cui si va a definire l’ampiezza (e di converso i limiti) di un potere, pubblico o privato che esso sia.
Potremmo trarre tanti esempi già dal diritto romano o dall’opera dei glossatori: era infatti ricorrente che una determinata competenza pur non espressamente attribuita venisse ritenuta implicita perché strumentale, o necessaria o conseguenziale.
Per venire a tempi più recenti, la teoria dei poteri impliciti ha una specifica consacrazione nell’ultimo comma della sez. 8^ dell’art. 1 della Costituzione USA, che attribuisce al Congresso il potere di fare tutte le leggi necessarie e opportune per l’esercizio dei poteri enumerati nella sezione stessa e di tutti gli altri poteri che la Costituzione conferisce al Governo degli Stati Uniti.
Fu proprio facendo leva su tale disposizione che Hamilton, nella sua qualità di segretario del Tesoro, fornì al Presidente Washington la teoria degli implied powers atta a giustificare la conformità a Costituzione della istituzione di una Banca Nazionale.
Teoria poi ripresa e rinsaldata dalla Corte Suprema nel 1819 [1], e che poi - come alla fine del XIX secolo ebbe ad osservare il futuro Presidente W. Wilson - ha costituito il principio dinamico basilare della teoria costituzionale americana.
In virtù di essa sono ritenuti costituzionali tutti i mezzi adottati dal Governo i quali siano idonei a raggiungere lo scopo della Costituzione, e nel contempo coerenti con la lettera e lo spirito della stessa.
La necessary and proper clause ha fatto sì che la Corte Suprema abbia ad esempio considerato "potere implicito" del Congresso la creazione di un diritto penale federale, la regolamentazione dei diritti dei lavoratori, l'esecuzione di ispezioni parlamentari, la confisca, per l'esazione dei tributi, il diritto di espropriazione, il diritto di negare l'accesso agli stranieri o di espellerli.
L’unico limite è che non si incontrino divieti espressi o che non si tratti di poteri così rilevanti e specifici – come ad esempio quello di far la guerra o quello di introdurre imposte – che non possano essere ontologicamente intesi come implied o incidental in altri poteri.
La teoria dei poteri impliciti è stata del resto intesa come propria di ogni ordinamento e di ogni testo normativo (salvo che questo non contenga una disposizione espressa di esclusione), anche in carenza di una clausola “abilitante” come quella della costituzione statunitense.
Risponde anzi ad una esigenza di interpretazione evolutiva, in quanto consente di adattare la normativa (specie quella dotata di rigidità, come le costituzioni moderne) via via ai bisogni del tempo[2].
Del resto, la stessa notissima sentenza della Corte Cost. 303/2003, che ha individuato una competenza del legislatore statale per ragioni di sussidiarietà verticale in materie di competenza regionale, non ha fatto altro che trarre questa competenza per implicito dall’art. 118, comma 1° Cost., destinato tra l’altro alle funzioni amministrative.
Nel diritto amministrativo, anche perché diritto non codificato e in continuo movimento, dove il fine dell’interesse pubblico da perseguire è costante e pressante, la teoria dei poteri impliciti ha sede precipua di elezione.
Tanto che intere categorie di poteri, per non dire istituti, in assenza di espressa previsione normativa sono stati ricavati per implicito: si pensi all’annullamento d’ufficio, alla revoca, alla convalida, alla sospensione, tutti ora positivizzati dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 che ha integrato e novellato la l. 7 agosto 1990, n. 241.
Come pure si ritiene un potere implicito il potere di autotutela esecutiva a difesa anche di beni del patrimonio indisponibile, per quanto ai sensi dell’art. 823, comma 2°, cod. civ., la facoltà per la pubblica amministrazione di procedere in via amministrativa è riferita ai soli beni del demanio.
Non solo: per molto tempo è stato considerato implicito il potere di coazione, ovvero il potere della pubblica amministrazione di dare attuazione ai provvedimenti rimasti non eseguiti da parte degli interessati pur intimati in tale senso: si riteneva cioè consustanziale allo stesso potere amministrativo la c.d. esecutorietà del provvedimento (tesi invero abbandonata dopo le critiche della dottrina più autorevole, a partire da Benvenuti, Sandulli e Cassese e ora contraddetta ex professo dall’art. 21-ter l. 241/1990).
Sono altresì poteri impliciti ad esempio il potere di diffida, i poteri dell’Amministrazione vigilante di annullare i provvedimenti dell’Ente vigilato, di sciogliere gli organi direttivi, di nominare un commissario ad acta, di emanare atti di indirizzo.
Si ritiene implicito il potere di emettere provvedimenti a sanatoria di comportamenti realizzati senza titolo, che hanno determinato la realizzazione di una res: come è evidente in tale circostanza la sanatoria investe non l’atto amministrativo, bensì l’intervento nel suo risultato dotato di consistenza materiale (potere che può incontrare limitazioni legislative, che di fatto invero riconoscono la presenza di tale potere, e allora in tal caso non è più implicito: v. ad es. art. 36 T.U. 6 giugno 2001, n. 380 e v. art. 146, comma 1°, lett. c, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42).
Si potrebbe invero obiettare che tali istituti trovano fondamento in principi generali, cioè in tutte quelle regole non scritte ma ricavabili da fonti positive (quali cod. civ., cod. proc. civile, leggi amministrative di particolare rilievo come T.U. degli enti locali o T.U. pubblico impiego, etc., fonti comunitarie, la stessa Costituzione), che “informano” e “piegano” il diritto amministrativo.
Sicché si tratterebbe di poteri legittimati direttamente dalla fonte “principio”, e non in virtù dell’applicazione della teoria dei poteri impliciti.
In realtà il confine tra le due categorie (potere per principio o potere per implicito) non è affatto netta.
Sovente si applica il principio o meglio si ritiene sussistente il principio in quanto implicito: ad es. l’annullamento, la revoca, la sospensione, sono conseguenze e dunque impliciti ai poteri amministrativi soggetti appunto a revoca.
Quanto ai vari poteri dell’amministrazione vigilante o al potere di diffida, sono intrinsecamente impliciti, nell’un caso al potere di vigilanza, nell’altro caso al potere di adottare misure di autotutela (decisoria o esecutiva) o sanzioni interdittive.
In ogni caso la presenza di principi autoapplicativi non fa venir meno il carattere implicito del potere, in quanto trattasi sempre di un potere inserito in un potere provvedimentale espresso, e dunque un potere incidentale o annesso, ed è semmai questa connessione che trova titolo nei principi generali.
Il tema è particolarmente sentito con riguardo ai poteri delle autorità indipendenti anzi, è stato “risvegliato” proprio dall’erompere (per dirla con Alberto Predieri) di tali autorità.
Ciò per la preminente ragione che la legislazione si limita ad attribuire competenze di carattere generale e ad enunciare solo alcuni obiettivi rimessi alla loro cura.
Ciò accade per varie ragioni rappresentate dal carattere indeterminato dei valori da tutelare (pluralismo, completezza di informazione, efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, risparmio, stabilità delle banche e delle compagnie di assicurazione ecc.), e, con riguardo specifico alle competenze di regolamentazione di settori tecnici, dal fatto che sono necessari interventi connotati da elasticità, alta competenza tecnica e specialistica.
Conseguentemente – è osservazione comune – i poteri conferiti all’Autorità vanno ben oltre la mera esecuzione ed integrazione delle disposizioni di legge, in quanto quest’ultime lasciano alle Autorità margini di discrezionalità così ampi “da configurare delle vere e proprie deleghe in bianco”[3], tanto che si è parlato di regolamenti “per obiettivi” o quasi “indipendenti”.
Si è di conseguenza più volte discettato per individuare il punto oltre il quale il principio di legalità, anche nella sua portata meramente formale, possa ritenersi non più rispettato, e di converso fino a che punto possa arrivare il criterio della strumentalità o dell’implicito.
La risposta a tale quesito non può essere data in astratto, essendo necessario verificare caso per caso, tenendo conto sia dello specifico potere affidato sia della specifica disciplina legislativa (di fonte statale o comunitaria), afferente alla materia oggetto di attribuzione di competenza.
La prevalente dottrina ha osservato che il rispetto del principio di legalità può essere assicurato anche attraverso una rete di «limitatori» della discrezionalità ricavabili dal sistema.
La riserva di legge ed il principio di legalità vengono infatti soddisfatti non soltanto dalla interpositio legislatoris, ma anche attraverso i principi e le regole ricavabili dall’ordinamento che rendono in concreto l’atto sindacabile.
Ed invero, contribuiscono a costituire la c.d. “raffrontabilità”, oltre ai principi generali, una procedura partecipata e trasparente, nonché una adeguata motivazione.
In particolare si tende a sottolineare come la partecipazione costituisce una surroga della interpositio legislativa.
In talune sentenze si afferma expressis verbis che nei settori regolati dalle Autorità, in assenza di un sistema completo e preciso di regole di comportamento con obblighi e divieti fissati dal legislatore, la caduta del valore della legalità sostanziale deve essere compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della legalità procedurale, sotto forma di garanzie del contraddittorio [4].
Si aggiunge che è in fondo la naturale flessibilità e mobilità delle materie affidate alle Autorità indipendenti, a far sì che queste non si prestino ad essere guidate da regole stabilite ex ante dal legislatore: il che tuttavia è controbilanciato dal fatto che standards univoci sono ravvisabili nelle regole della tecnica (quelle che una volta si chiamavano le “regole dell’arte”), le quali determinano risposte normative a contenuto obbligatorio.
A tal proposito, è da ricordare che la giurisprudenza ha costantemente rilevato che il principio di legalità è inverato quando si tratta di norme “confacenti al particolare ambito tecnico - specialistico cui si riferiscono” [5].
Al punto che, addirittura con riguardo alla disciplina di sanzioni amministrative (quindi a stretta legalità), si è affermato che è ammissibile nella normativa regolamentare “una certa «elasticità nella puntuale configurazione e nella determinazione delle condotte sanzionabili», purché «esse siano riferibili a principi enunciati da disposizioni legislative o enucleabili dai valori che ispirano nel loro complesso le regole di comportamento che caratterizzano la scala di doveri propri della funzione esercitata» [6]; specialmente «quando il contenuto dei valori tutelati dalla norma ... è tale da rendere impossibile prevedere tutti i comportamenti che possono lederli»” [7].
Per andare al concreto facendo riferimento ai regolamenti (definiti istruzioni di vigilanza) di Banca d’Italia, si afferma che la loro rispondenza al principio di legalità nasce dal fatto che si muovono entro criteri oggettivi, ricavabili dalla regolamentazione tecnica del settore bancario[8].
Ne deriva che laddove si debbano determinare disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto materie di carattere tecnico come ad esempio l'adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio, le partecipazioni detenibili, l'organizzazione contabile ed i controlli interni, soccorrono specifiche regole tecniche che nascono dalla dottrina, dalla pratica, dai principi deontologici, i quali contribuiscono a dettare criteri volti a garantire la cosiddetta “raffrontabilità”[9].
Naturalmente se si vanno a calare queste regole generali ed astratte, volte ad individuare le reti di protezione della legalità, sulla variegata casistica, non mancano zone d’ombra.
In particolare le querelles hanno investito i poteri dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, titolare di attribuzioni “a ridotta tassatività”, tantochè il Consiglio di Stato, ha osservato, proprio con riguardo alla legge istitutiva (l. 481/1995) che essa “è una legge d’indirizzo che poggia su prognosi incerte, rinvii in bianco all’esercizio futuro del potere, inscritto in clausole generali o concetti indeterminati che spetta all’Autorità concretizzare” [10].
Così ad esempio si è ritenuto che nel potere di tutelare la sicurezza degli impianti rientra anche il potere di imporre una garanzia assicurativa per gli infortuni derivanti dall’uso del gas fornito da impianti di distribuzione a tutti gli utenti finali civili (ma di diverso avviso era stato il TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 6392).
In altra occasione, si è discusso se a seguito della liberalizzazione del settore l’autorità per l’energia possa dettare tariffe per la fornitura del gas naturale: a fronte di una lettura della disciplina per cui il potere di regolazione era venuto meno, fatta propria dal TAR Lombardia, il Consiglio di Stato (Sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3352) ha ritenuto invece ancora sussistente tale potere in quanto strumentale alla salvaguardia delle dinamiche concorrenziali a tutela dell’utenza.
La tematica si arricchisce sempre di nuovi aspetti: è di questi giorni la sentenza del TAR Lombardia, Sez. III, 14/03/2013, n. 683, che ha negato la possibilità per l’Autorità di poter disporre di poteri incidenti sull’autonomia contrattuale: nella specie si trattava della prescrizione adottata in nome del buon funzionamento del mercato, che prevede un indennizzo in favore dei venditori “uscenti” danneggiati (le cui prestazioni sono state cioè non pagate dai clienti, passati nel frattempo ad altri fornitori, secondo lo schema del c.d. “turismo energetico”), a ristoro del pregiudizio derivante dall’impossibilità o dalla scarsa convenienza economica di recuperare dall’ex cliente le somme non pagate.
Ma si tratta di questioni e problemi trasversali a tutte le Autorità.
Sicché la monografia di Cristiano Celone intitolata “La funzione di vigilanza e regolazione dell’Autorità sui contratti pubblici” non poteva non immergersi nel tema dei poteri impliciti.
Da un lato, per le ragioni “ontologiche” di decifrabilità dei poteri dell’Autorità indipendente, decifrabilità che passa attraverso la individuazione dei poteri connessi, strumentali o impliciti che siano, dall’altro perché le funzioni evocate nello stesso titolo del libro “vigilanza” e “regolazione”, hanno a loro volta un contenuto aperto, quando non indeterminato: il che ancora una volta riconduce all’individuazione di ciò che vi è di implicito (e, di rimando, di non implicito).
Lo studio costituisce nel contempo la prima ricostruzione sistematica dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, tantopiù alla luce del più sistematico ruolo regolatorio che essa ha assunto a seguito del codice dei contratti pubblici nonché della legislazione più recente.
Come logico che sia, la monografia ha una parte preliminare – introduttivo - dedicata alla teoria generale in punto di funzione di vigilanza e di funzione di regolazione, nella quale si mette in luce la interdipendenza tra le due funzioni, in quanto la nozione stessa di regolazione, oltre ad avere come caratteristica proprio la unitarietà dell’obiettivo, è identificabile proprio attraverso la compresenza e convergenza di funzioni indirizzate a tal fine.
Sicché sia la normazione, che l’esecuzione, che la vigilanza, sono funzionali allo stesso obiettivo e tra di loro collegate e interconnesse.
La monografia poi indaga la struttura dell’Autorità, e con essa i requisiti di indipendenza, nonché le varie forme di autonomia (contabile, organizzativa, finanziaria).
Si sofferma a lungo evidenziandone i vari profili problematici su tutta la panoplia di funzioni di cui dispone l’Autorità: di controllo, di sanzione (pecuniaria e interdittiva), di autorizzazione degli organismi di attestazione (SOA), di sospensione, decadenza e annullamento degli attestati di qualificazione della SOA, di verifica, di segnalazione e proposta, di ispezione, di pareri (non vincolanti), di regolamentazione dell’esercizio delle proprie funzioni, di nomina di componenti della Camera arbitrale, etc.
In questa disamina, il dibattito sui poteri impliciti è uno dei fili sotto traccia attorno a cui si svolge il percorso dell’Autore.
In primo luogo tale filo investe la vigilanza, di cui si mette in luce come ad essa si riconduca un ampio spettro di poteri, non sempre espressamente attribuiti e dunque impliciti.
Vero è che c’è vigilanza e vigilanza, nel senso che l’istituto deve sempre essere misurato alla luce del diritto positivo, che può escludere espressamente talune funzioni di quelle che, in linea generale, fanno parte dell’“arsenale” della vigilanza o aggiungerne altre non tipiche tanto che la dottrina ha parlato di manifestazioni “possibili” della vigilanza essendo di contro non corretto “fissare dei principi generali, in quanto ad ogni particolare fattispecie, legislativamente prevista, corrisponde una serie più o meno estesa e più o meno intensa di poteri che si ricollegano agli istituti della vigilanza e della tutela” [11].
Non solo: l’istituto deve essere misurato alla luce del rapporto ordinamentale che lega vigilante e vigilato, o meglio dello stato di autonomia che caratterizza il vigilato (un conto è se è un ente strumentale, un conto se un ente autonomo, un conto un soggetto privato etc.).
Tuttavia la “summa” dei poteri che la stratificata legislazione ha via via attribuito alle amministrazioni vigilanti ha determinato un vero e proprio “precipitato” di poteri che si ritengono comunque essere compresi nell’ambito della nozione di vigilanza, a meno che non vi siano espresse eccezioni di legge (ad es. la nomina di un commissario straordinario “costituisce attuazione del principio generale, applicabile a tutti gli enti pubblici, del superiore interesse pubblico al sopperimento, con tale rimedio, degli organi di ordinaria amministrazione, i cui titolari siano scaduti o mancanti” (Corte Cost. 20 gennaio 2004, n. 27).
Con riguardo alle autorità indipendenti, la individuazione dei confini alla vigilanza e più nello specifico delle concrete manifestazioni di misure in cui può dispiegarsi si fa ancora più complessa: sia perché si intreccia con la camaleontica e multiforme nozione di regolazione, sia perché tali autorità dispongono di una serie di poteri puntuali, riconducibili alla vigilanza (si pensi ai poteri di ispezione e a quelli giustiziali o a quelli autorizzativi o inibitori etc.).
Non è però possibile trarre un “sistema” di poteri validi per tutte le autorità, o in altre parole dedurre per via analogica dai poteri di una autorità poteri da attribuire ad altre autorità.
Ognuna ha una sua rete di competenze, collegate al ruolo assegnato dall’ordinamento: ad esempio non è certo possibile far transitare altrove competenze e poteri attribuiti a Banca d’Italia e ISVAP (ora IVASS) nei confronti di banche e compagnie di assicurazioni, soggetti vigilati in tutta la loro attività, per evidenti ragioni di tutela della stabilità di tali regolamenti e del risparmio.
L’Autore distingue con avvedutezza due caratteri delle funzioni di vigilanza (a sua volta imbricata con quella di regolazione, quando non con essa sovrapponibili): una preventiva, con finalità principalmente interpretativa ed integrativa della normativa, nonché orientativa e conformativa delle attività dei soggetti vigilati, che si concretizza soprattutto nell’adozione di regolamenti e di atti e provvedimenti generali, anche di soft law; ed una successiva, con finalità spiccatamente correttiva e conformativa e con una portata tendenzialmente generale, che è di solito esercitata tramite provvedimenti individuali di regolazione, inseriti talvolta all’interno di schemi provvedimentali tradizionali, rubricati, per esempio, come autorizzazioni o diffide, oppure ancora attraverso atti individuali di moral suasion.
La funzione successiva, ove abbia effetti vincolanti, non può che rispondere al principio di legalità, nella sua sottospecie rappresentata dal principio di tipicità.
Nel senso che non è possibile far leva sulla cura degli interessi pubblici affidati per estrarne poteri a ciò funzionali.
In tal senso è sempre attuale quanto si legge in una storica sentenza: il “noto principio della tipicità degli atti amministrativi, cioè il principio per cui la pubblica Autorità può emanare esclusivamente i tipi di atti che sono previsti dalla legge, e per cui le norme che conferiscono poteri amministrativi sono tassative”, e la “tipicità degli atti amministrativi implica cioè l’identificazione di uno schema legale tipico per ciascun atto, con la conseguenza che l’atto che per qualche profilo decampi dallo schema è illegittimo”; con la precisazione che “la competenza provvedimentale delle Autorità amministrative non è identificata esclusivamente attraverso la “materia” intesa come sfera di interessi.
Un concreto provvedimento amministrativo può decampare dallo schema legale, e quindi essere illegittimo, anche quando sia indiscussa la sua congruenza all’interesse pubblico la cui tutela è affidata all’Autorità emanante” [12].
Di conseguenza l’Amministrazione non può imporre la concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per dar luogo a modifiche d’uso di immobili cui si dia corso senza opere: la disciplina legislativa degli strumenti urbanistici all’epoca consentiva a questi di porre solo prescrizioni, che venivano inverate o controllate in sede di esecuzione di opere.
In altre parole non è sufficiente la competenza nella materia, occorre l’attribuzione espressa di quel potere, tantopiù che il Consiglio di Stato nella sentenza 12 settembre 2006, n. 5317 della Sez. IV, ha messo in luce proprio con riguardo alla Autorità in oggetto che “la ricostruzione dogmatica del concetto di vigilanza implica un rapporto organizzatorio diverso e più tenue del rapporto gerarchico e che deve essere inteso come potere strumentale al corretto esercizio della funzione in quella determinata materia stabilita dalla legge e non è caratterizzata dal controllo su di un’attività amministrativa già svolta, ponendosi piuttosto come indirizzo all’attività da svolgersi.
Vero è che lo stesso Consiglio di Stato, ancora con riguardo all’Autorità sui contratti pubblici ha ritenuto che essendole stati conferiti penetranti poteri di controllo, quali l’indicazione del contenuto che devono assumere certi atti (nel caso di specie il potere dell’Autorità nei confronti delle SOA), si possa ritenere sussistente, al fine di rendere effettiva la vigilanza, un potere di annullamento dei predetti atti, anche se non riconosciuto espressamente dalla legge.
Peraltro di diverso avviso era stato il TAR Lazio [13] basandosi sul fatto che non era riscontrabile alcuna norma né della legge né del regolamento che prevedesse in capo all’Autorità un potere di diretta incidenza sulle attestazioni rilasciate dalle SOA; sicché aveva concluso come fosse da escludere che tale Autorità potesse legittimamente emanare veri e propri provvedimenti di annullamento delle attestazioni rilasciate.
La incertezza della questione è del resto dimostrata dal fatto che tale potere è stato ora espressamente riconosciuto dall’art. 40, comma 4°, lett. b), e comma 9° ter,d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici). Ed invero una lettura ortodossa del principio di tipicità è tantopiù necessaria considerata la genericità degli obiettivi affidati alle Autorità, che investono il buon andamento del mercato, la tutela della concorrenza etc., sì che assegnare loro, senza base legislativa i poteri a ciò funzionali significherebbe dar luogo a veri e propri provvedimenti extra ordinem.
E’ vero che le Autorità tendono ad una interpretazione estensiva: gli esempi adottati delle misure adottate da AEEG e dalla stessa Autorità per i contratti lo dimostrano.
Ed è vero che si assiste ad una estensione dei poteri attraverso la estensione dell’oggetto del potere provvedimentale espressamente attribuito: caso tipico è la diffida di AGCM ex art. 15 l. 287/1990 che accompagna l’accertamento di un illecito anticoncorrenziale: mentre il contenuto della diffida dovrebbe consistere esclusivamente nell’inibizione a non ripetere o proseguire nel comportamento illecito, l’Autorità tende a conformare il comportamento dell’impresa nel mercato ben oltre quelli che sono i limiti risultanti dall’illecito accertato.
In altre parole l’Autorità non si limita a registrare il disvalore concorrenziale di un certo comportamento, ma tende a configurare il migliore assetto possibile per quel dato mercato e, pertanto, utilizza la diffida per conformare il mercato imponendo obblighi di comportamento.
Nascono così veri e propri obblighi di facere, e dunque AGCM esplica una funzione che si aggiunge al contenuto tipico della diffida.
L’Autore dà conto di questa prassi per trarne conseguenze sul piano generale, atte ad individuare una regolazione ex post con effetti conformativi come connotato tipico delle funzioni delle Autorità.
Ma a guardar bene la estensione di oggetto del provvedimento va considerata alla stregua di un obiter dictum: in tal guisa ha effetti sul piano della moral suasion, ma non direttamente conformativi e precettivi.
Sicché appare più corretto ricondurre tutta la prassi regolatoria in questione di AGCM al ruolo orientativo che fa parte della fisionomia di ogni Autorità, e non come conferma del principio per cui l’interesse da curare consente di adottare ogni sorta di provvedimento ritenuto idoneo allo scopo.
Del resto l’Autore non giunge a dire questo, limitandosi ad evidenziare una tendenza espansiva dei poteri delle Autorità e nel contempo a condividere, sul piano dell’efficienza e dell’efficacia del sistema, tale indirizzo conseguente alla finalità generale di garanzia del buon funzionamento dei mercati, e nel contempo, di tutela e valorizzazione di una pluralità di diritti fondamentali degli operatori economici, dei cittadini, dei consumatori e degli utenti, nonché di beni ed interessi pubblici di rilevanza costituzionale, in genere non ordinati gerarchicamente e quindi lasciati alla ragionevole ed equilibrata composizione delle medesime autorità indipendenti.
Celone dedica altresì particolare attenzione alla funzione di vigilanza (e, sempre per connessione, di regolazione) preventiva, con particolare riguardo al potere regolamentare.
Sul punto non disquisisce tanto sul tema, cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, della “vaghezza” e della “genericità” degli oggetti da disciplinare con la normazione, quanto sulla presenza stessa di tale potere normativo.
In sintesi, nel pensiero dell’Autore, determinazioni, comunicati, deliberazioni, costituiscono tutti espressione di un potere strettamente congiunto a quello di vigilanza e anzi indispensabile perché l’Autorità possa esplicare la sua funzione tipica volta a garantire il corretto funzionamento del sistema dei contratti pubblici al punto che possono estrinsecarsi in veste normativa, cioè con effetti vincolanti erga omnes.
In altri termini, l’Autore sostiene che il potere regolamentare-regolatorio, anche se non espressamente positivizzato, da un lato è strettamente connesso alla funzione di vigilanza, dall’altro è funzionale anzi necessario per raggiungere e soddisfare nel modo migliore i molteplici obiettivi e valori e interessi che la legge ha affidato all’Autorità.
Senonchè la tesi dell’Autore circa la presenza di un potere di dettare regole generali ed astratte con effetti direttamente conformativi, pur illustrata con dovizia di argomenti, non appare sostenibile per le stesse ragioni di difformità dal principio di tipicità – legalità prospettato con riguardo alla regolazione conformativa ex post.
Non solo: la lettura estensiva del potere di vigilanza, sino a ricomprendere il potere regolamentare è stata respinta dalla Corte Costituzionale (sentenza 29 settembre 2003, n. 300) pur con riguardo agli atti di mero indirizzo del Ministero dell’Economia e delle Finanze, quale Autorità di vigilanza sulle fondazioni bancarie, la Corte ha difatti osservato che l’attività di vigilanza ha natura dell’attività di controllo, che si articola nella sequenza parametro-verifica-giudizio: il parametro è da individuare nella norma di legge e non può, come invece avviene quando sussista espressamente un potere di indirizzo, essere ulteriormente specificato o conformato dall’autorità di vigilanza con propri atti.
Celone invero radica le proprie conclusioni anche sul coacervo di funzioni di cui dispone l’Autorità, che di conseguenza necessiterebbe di una previa determinazione nell’interesse delle stazioni appaltanti e così del buon funzionamento del mercato.
Ma in tal maniera si ripercorre, sotto nuova veste, l’antico ragionamento di Federico Cammeo, che fondava il potere regolamentare sulla attribuzione di poteri discrezionali, che in tal maniera venivano ad essere autoregolamentati, a tal fine rifacendosi alla famosa formula di Gneist secondo la quale “ciò che l’Autorità può comandare e vietare in ogni singolo caso , può comandarlo o vietarlo in generale per tutti i casi simili dell’avvenire”.
Tesi peraltro che è stata da gran tempo abbandonata, a partire dal fondamentale saggio di Zanobini del 1922, che dimostrò il necessario ancoraggio alla legge del potere regolamentare, stante la diversa natura degli atti amministrativi “regolamentari” rispetto agli atti amministrativi “provvedimentali”.
Aggiungasi che, in una materia già così intensamente disciplinata a livello comunitario oltre che a livello statale un potere regolamentare ulteriore, in quanto si aggiungerebbe al regolamento esecutivo definito con d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207, non potrebbe che essere fonte di incertezze interpretative, anche perché alla fin fine non si tradurrebbe che in norme interpretative delle norme sovraordinate, e dunque passibili di disapplicazione.
Ed invero perché lo scopo primario della stessa istituzione dell’Autorità è quello di garantire la tutela della concorrenza nel settore dei contratti pubblici, e come rilevato più volte dalla Corte Costituzionale, le regole di concorrenza esprimono un carattere unitario [14], ne deriva che l’“arcipelago” di fonti si porrebbe in contraddizione con tale valore.
Sicché la strada scelta dal legislatore di dare ad AVCP funzioni di orientamento, di moral suasion, di monitoraggio, di consulenza, di espressione di poteri-consultivi di vario tipo (es. di precontenzioso o sulle clausole di bandi e lettere di invito) e non di poteri regolamentari, risponde all’esigenza di avere un’Autorità dotata di alte competenze tecniche, che funga da punto di riferimento e da supporto per le stazioni appaltanti e per le imprese e non un produttore di ulteriori norme, delle quali non si sente certo il bisogno tantopiù a livello di fonti secondarie.
I poteri di soft law al pari e forse più di tutti gli altri pur dotati di forza conformativa sono del resto di primaria importanza ai fini del corretto funzionamento del mercato, nell’interesse delle imprese ma anche e soprattutto delle stazioni appaltanti e con esse nell’interesse pubblico ad una efficiente ed economica realizzazione delle opere pubbliche e prestazione di servizi e forniture.
Merito della monografia è stato mettere in risalto che tale compito di carattere orientativo-interpretativo costituisce la “cifra significante” delle funzioni dell’Autorità, la quale appunto va vista non come un mero “gendarme” della mera correttezza formale delle procedure.
Del resto l’art. 8, comma 5 del Codice dei contratti, laddove richiama “«le delibere dell’Autorità»” che «riguardino questione di interesse generale o la soluzione di questione di massima»”costituisce un segnale inequivoco del ruolo di ente di regolazione ex ante.
Come pure merito dell’Autore è aver messo in luce la funzione dinamica e attenta al risultato dell’Autorità di vigilanza, nonché, pur nella variegatezza di attribuzioni, la sua funzionalizzazione verso l’espansione massima dei principi di concorrenza e di non discriminazione e nel contempo di efficienza ed economicità nella gestione dei contratti.
Emerge dalla monografia la consapevolezza che le funzioni assegnate ad AVCP dal Codice dei contratti, cui si aggiungono quelle assegnate più recentemente (ad es. in materia di tracciabilità dei flussi finanziari, di vigilanza per la razionalizzazione della spesa sanitaria, di verifica dello stato di attuazione delle opere pubbliche, di banca dati nazionale dei contratti pubblici, di verifica dei requisiti per la partecipazione alle procedure di affidamento, di redazione di schema tipo per le informazioni sui costi unitari, etc.) pongono tutti i presupposti a che tale Autorità si affermi come regolatore a tutto campo del complesso, vasto e “contenziosissimo” settore dei contratti pubblici, regolazione che sarà tanto più efficace e dunque fonte di certezza e stabilità quanto maggiore sarà l’auctoritas che nel tempo e sul campo essa riuscirà ad acquisire, auctoritas che a sua volta necessita di un inquadramento dogmatico, di una ricostruzione sia sul pianto esegetico sia sul piano delle rationes sottese, di una rivisitazione critica dell’“arsenale” dei poteri attribuiti, contenuti questi ora tutti rinvenibili nella monografia di Celone.
[1]- Nel noto caso MacCulloch vs Maryland, 17 U.S. 316 (1819) in cui si ebbe ad affermare che “se lo scopo è legittimo e costituzionale allora tutti i mezzi che sono appropriati e vengono adottati chiaramente al fine di raggiungerlo e che non sono espressamente vietati dalla Costituzione, ma anzi sono coerenti con il testo e lo spirito della Costituzione, sono costituzionali”.
[2] - V. in tal senso già A. Levi, La teoria hamiltoniana degli implied powers della Costituzione, in Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti della classe scienze morali, storiche e filologiche, serie VIII, vol VI, 1952, 513.
[3] - Così P. Caretti, Introduzione, in P. Caretti (a cura di), Osservatorio sulle fonti, 2003-2004, Torino, 2004, XV.
[4] - V. Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2006, n. 7972, in Giornale dir. amm.vo, 4/2007, 378 ss. con nota di S. Screpanti, La partecipazione ai procedimenti regolati dalle Autorità indipendenti, cui si rinvia anche per i molti richiami di dottrina e di giurisprudenza sulla c.d. “legalità procedimentale”.
[5] - V. Cass., Sez. I, 7 aprile 1999, n. 3351, in Giust. civ. mass., 1999,770.
[6] - V. Corte Cost. 24 luglio 1995, n. 356. in Giur. cost., 1995, I, 2631.
[7] - V. Corte Cost. 8 giugno 1981, n. 100, in Giur. cost., 1981, I, 843.
[8]- V. Cass., Sez. I, 23 marzo, 2004, n. 5743, in Foro amm. CdS, 2004, 679.
[9] - V. in argomento quanto rilevato in G. Morbidelli, Il potere regolamentare di ISVAP dopo il Codice delle Assicurazioni, in Scritti in onore di Giovanni Grottanelli de Santi, Milano, 2007, spec. 599 ss. Si potrebbe aggiungere che, a fronte di norme tecniche, la giurisprudenza costituzionale non solo riduce il tasso di raffrontabilità, ma legge con minore rigore il riparto di competenze tra Stato e Regioni (si rinvia sul punto a A. Contieri, Normative tecniche come limite all’attività normativa, in Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo Annuario, 2004, Condizioni e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, Milano, 2005, 105). Va detto anche che, in talune occasioni, la Corte Costituzionale ha invero fatto un uso eccessivamente disinvolto del criterio della tecnicità. Ciò in particolare con riguardo alla disciplina di cui alla legge urbanistica: infatti dopo aver precisato che la riserva relativa di legge ex art. 42, comma 2°, consente al legislatore di attribuire alla pubblica Amministrazione il potere di incidere sulla concreta disciplina del godimento degli immobili “qualora, nella legge ordinaria siano contenuti elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell’Amministrazione”, la Corte ebbe rilevare che “gli ampi poteri (così testualmente la Corte), conferiti ai commi dall’art. 7 della legge urbanistica, secondo cui, com’è noto, mediante l’emanazione dei piani regolatori il territorio comunale viene distinto in zone più o meno edificabili, con rilevanti conseguente per il diritto del proprietario”, sono in linea con la riserva di legge, in quanto l’imposizione di vincoli di zona sulle aree altrimenti fabbricabili non costituisce esercizio “di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile”, bensì di discrezionalità tecnica”, rimanendo pertanto esclusa la prospettata violazione della riserva relativa di legge” (v. in tal senso la sentenza Corte Cost. 3 maggio 1966 n. 38, negli stessi termini Corte Cost. 11 maggio 1971 n. 94).
[10] - Sez. VI, 17 ottobre 2005, n. 5827.
[11] - M. Stipo, Vigilanza e tutela, Enc. giur. Treccani, ad vocem.
[12] - Cons. St., Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 991; Id., Sez. VI, 24 gennaio 2005, n. 128.
[13] - Sez. III, 13 marzo 2004, n. 2439; Id., 19 maggio 2003, n. 4368,
[14] - V. sul punto le pertinenti osservazioni di E. Carloni, L’uniformità come valore. La Corte oltre la tutela della concorrenza, in Le Regioni, 2010, p. 680.
Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti
Maria Alessandra Sandulli
Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Roma Tre.
Premessa: i poteri di legittimazione ad agire delle autorità indipendenti e dei Ministeri dell’Università e della Ricerca e dell’Economia e delle Finanze.
Consentitemi innanzi tutto di rivolgere un sentito ringraziamento agli organizzatori di questo incontro per avermi invitato a partecipare a questo interessante dibattito sulle Autorità indipendenti e al Presidente Giovannini che ci ha ospitato in questa splendida e prestigiosa sede.
L’argomento sul quale mi è stato chiesto di intervenire (e del quale mi sono peraltro già occupata in varie occasioni) riveste all’evidenza massimo interesse per gli studiosi di giustizia amministrativa, integrando allo stato uno dei profili più delicati, se non il più delicato, della vasta e complessa tematica della legittimazione ad agire in giudizio, tradizionalmente legata alla “tutela dei propri diritti e interessi giuridicamente protetti”.
L’attribuzione ex lege ad un’Autorità pubblica del potere (e forse dovere) di ricorrere dinanzi al giudice amministrativo a tutela di un interesse di valenza generale è stata avvertita come una novità sensazionale nel nostro sistema, che, come era prevedibile, ha destato immediatamente l’attenzione degli studiosi.
Io stessa ho avuto subito occasione di occuparmene, in primissima battuta, nel corso di un incontro di studi svoltosi a Roma TRE il 12 aprile 2012 su “Norme europee a tutela della concorrenza e giudice amministrativo” e, poco dopo, in un convegno specificamente dedicato al tema, organizzato presso la medesima AGCM, in collaborazione con la mia cattedra di Giustizia amministrativa, il 31 maggio 2012.
Il nuovo potere di legittimazione a ricorrere a tutela della concorrenza riconosciuto all’Autorità antitrust dall’art. 35 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 – che trova un lontano precedente nel potere di agire in giudizio originariamente riconosciuto al Garante per l’editoria, ancorché poi eliminato, e anticipa quello recentemente attribuito all’istituenda Autorità dei Trasporti in materia di provvedimenti sui taxi – non è però ad una più attenta ricognizione del sistema una novità in senso assoluto.
Come si riporta anche nel volume di Cristiano Celone, che andiamo oggi a presentare, la Banca d’Italia e la Consob sono state da tempo legittimate ad impugnare le deliberazioni o gli atti delle società vigilate adottati in violazione di alcune disposizioni sul diritto di voto in materia di intermediazione finanziaria (artt. 14., 62, 110, 121 e 157 del d. lgs. n. 58 del 1998), mentre l’art. 6 della l. n. 168 del 1989, richiamato dall’art. 2, comma 7 della l. n. 240 del 2010, ha attribuito al Ministro dell’Università e della Ricerca uno specifico potere di impugnazione degli Statuti dei singoli Atenei che non si adeguino ai propri rilievi di legittimità.
Ma, soprattutto, merita richiamare lo stranamente meno attenzionato potere riconosciuto già dal 1997 al Ministero delle Finanze di impugnare per qualsiasi vizio di legittimità i regolamenti comunali in materia di entrate tributarie (art. 52, comma 4 del d. lgs. n. 446 del 1997).
Si tratta, a ben vedere, in tutti i casi, di un potere (e, come si dirà, forse dovere) di controllo indiretto, esercitabile attraverso l’esperimento di un’azione impugnatoria, affidato ad un’Autorità pubblica sugli atti illegittimamente incidenti sulla sfera di interessi rimessi alla sua cura.
Nei casi dei Ministeri, peraltro, a differenza di quanto disposto per le Autorità indipendenti, l’azione è sganciata dal tipo di vizio denunciato e dunque, sembrerebbe, dalla tutela di uno specifico interesse.
La settorialità e specificità degli Statuti universitari e dei regolamenti comunali in tema di entrate tributarie e l’inserimento della surrichiamata disposizione sul MEF in una legge omnibus sulla finanza locale spiegano come le relative disposizioni siano passate sotto silenzio e, seppure come già detto non limitative dei vizi di legittimità denunciabili, non abbiano suscitato il clamore destato dal ben più ampio e generale potere di legittimazione attiva riconosciuto all’Autorità antitrust dal citato art. 35 del c.d. decreto “salva Italia”.
L’articolo si inserisce, come noto, nell’ambito del più vasto complesso di disposizioni che, a partire dal d.l. n. 138 del 2011, attribuiscono nuovi poteri e nuovi compiti all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, chiamata a collaborare in prima linea al rilancio dell’economia attraverso la valorizzazione dell’effettività della concorrenza, aggiungendo sotto la significativa rubrica “Potenziamento dell’Antitrust”, un art. 21-bis alla l. n. 287 del 1990, riconosce invero all’Autorità un generalissimo potere di ricorrere dinanzi al giudice amministrativo (secondo il rito accelerato di cui al Titolo V del Libro IV del c.p.a.) “contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
L’ampia formulazione della norma, che attribuisce all’AGCM una legittimazione ad impugnare qualsiasi atto (anche a contenuto particolare) assunto da una pubblica amministrazione (la regola, in quanto eccezionale, trova, a mio avviso, applicazione soltanto alle pubbliche amministrazioni in senso stretto, indicate dall’art. 1 comma 2 del d. lgs. n. 165 del 2001) in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, le consente di incidere in via immediata su qualsiasi procedura concorsuale che, pur astrattamente rispettosa del sistema pro-concorrenziale, integri nel suo concreto espletamento una violazione delle sue regole formali e/o sostanziali, eludendone i principi informatori.
Al di là delle problematiche che la disposizione potrà sollevare sul piano pratico (in relazione al limitato organico dell’Autorità e alla oggettiva impossibilità per la medesima di “monitorare” tutti i provvedimenti amministrativi suscettibili di contravvenire alle norme sulla concorrenza, compito per il quale dovrebbe opportunamente potersi avvalere quanto meno delle Autorità di settore), si tratta, come è agevole rilevare, di una novità di grandissimo rilievo, non soltanto per la forza che essa attribuisce all’Autorità antitrust, che ha significativamente già iniziato ad avvalersene, e al valore primario riconosciuto alla concorrenza, ma anche e soprattutto per i potenziali effetti sulla ricostruzione generale della funzione del giudice amministrativo, che, accedendo ad una lettura della norma in termini di apertura alla legittimazione “pubblica” ad un’azione “nell’interesse della legge”, vedrebbe indubitabilmente potenziato il suo ruolo di garanzia della “giustizia nell’amministrazione” affermata dall’art. 100 Cost. e più volte sottolineata dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. 204 del 2004 [1] , sollevando tuttavia qualche problema di compatibilità con l’art. 103 Cost..
Quella del fondamento della legittimazione a ricorrere dell’AGCM costituisce invero, anche per la sua natura necessariamente preliminare, la questione più delicata posta dalla novella del 2011.
Occorre cioè stabilire se essa attribuisca all’AGCM una speciale forma di legittimazione al ricorso (indipendente dalla titolarità di una posizione giuridicamente qualificata e differenziata) o se, invece, si limiti a configurare l’interesse al rispetto della concorrenza come una particolare forma di interesse legittimo (ricostruito anche come una sorta di interesse collettivo di cui l’AGCM diventerebbe una specie di ente esponenziale, secondo un modello simile a quello utilizzato per gli interessi diffusi) [2].
Secondo la prima chiave di lettura, sostenuta a prima lettura da vari commentatori, tra cui anche chi vi parla [3], l’art. 21-bis (e, già nel 1997, l’art. 52 de d.lgs. n. 446) introdurrebbe una forma – atipica e specialissima – di giurisdizione di natura oggettiva, attivata a tutela di un interesse generale e non per difendere situazioni giuridiche particolari.
Nella seconda ipotesi, al contrario, il nuovo potere di azione sarebbe comunque riconducibile nell’ambito della tradizionale giurisdizione a tutela di situazioni soggettive giuridicamente qualificate e differenziate, con la sola peculiarità che, in tal caso, l’interesse a tutela del quale è proposto il ricorso si soggettivizza in un’Autorità pubblica.
Come è agevole comprendere e come non si è mancato, anche recentemente, di sottolineare [4], la questione non è meramente teorica o dogmatica, ma ha importanti implicazioni pratiche, che, come immediatamente rilevato dai primi commentatori, investono innanzi tutto la sua compatibilità costituzionale, in riferimento al citato art. 103 Cost., il quale, dopo aver disposto che “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari”, attribuisce al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa la “giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi”: formula che, onestamente, non sembra lasciare spazio alla protezione di interessi non riconducibili a tali posizioni soggettive.
Giustificando così le perplessità di quegli Autori [5], che, già in sede di primo commento, hanno rappresentato l’inconciliabilità di tale disposizione con una giurisdizione di tipo oggettivo, proposta, nel – mero – interesse della legge, a prescindere dalla titolarità di un interesse differenziato e qualificato.
Il problema, come è agevole comprendere, è ancora più delicato per i riferiti poteri di legittimazione ministeriale, se ed in quanto, come sembrerebbe dalla lettera della legge, non espressamente correlati all’interesse pubblico di cui i Ministeri attori sono portatori.
Sicché non è ad esempio dato comprendere se il MEF possa agire soltanto a tutela dell’interesse ad una maggiore e/o più equa imposizione tributaria o anche, in termini più generali, a tutela dell’interesse generale alla “buona amministrazione”, o ancora, come peraltro sta facendo, a protezione degli amministrati da un potere impositivo perfettamente logico ed equo solo perché ritenuto in contrasto con specifiche disposizioni di legge ordinaria.
Mi riferisco, in particolare, all’impugnazione dei regolamenti con i quali alcuni comuni insulari, nel sostituire la tassa di soggiorno con quella di sbarco, ne hanno previsto l’applicazione a tutti coloro che sbarcano invece che limitarla a quelli che utilizzano compagnie di linea come apparentemente previsto dalla legge: un’impugnazione, dunque, di cui non è facile individuare il fondamento in un interesse “soggettivizzato” diverso da quello al primato della legge ordinaria, anche a discapito dei principi costituzionali.
Non sembra in proposito inutile peraltro rilevare che, nel parere (n. 123 del 12 luglio 1999) espresso quasi quindici anni fa sul Regolamento di attuazione della c.d. “legge Merloni” (legge quadro in materia di lavori pubblici), l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, di fronte alla richiesta dell’allora Autorità di Vigilanza per i lavori pubblici di ottenere una legittimazione ad impugnare in via giurisdizionale gli atti di affidamento ritenuti illegittimi, osservò sì che “l’attribuzione di un generale potere di legittimazione ad impugnare gli atti delle stazioni appaltanti verrebbe a configurare una sorta di azione pubblica nell’interesse della legge, in contrasto con i principi generali del nostro ordinamento che richiedono – a parte i settori della giurisdizione penale e contabile – che l’azione giudiziaria trovi comunque un collegamento, sia pure amplissimo, con un interesse del soggetto agente protetto sia direttamente (diritto soggettivo) sia occasionalmente (interesse legittimo)”, ma concluse poi nel senso che “una simile azione non può che essere disposta per legge”, senza fare alcun riferimento alla compatibilità costituzionale di tale ipotesi.
Il tema merita invece sicuramente maggiore approfondimento.
I presupposti e il fondamento del nuovo potere nel quadro costituzionale ed euro-unitario.
La questione non può a mio avviso prescindere dalla già sottolineata circostanza che le nuove disposizioni costituiscono un importantissimo segnale di attenzione verso la garanzia di un valore che trae dal Diritto dell’Unione europea una primaria rilevanza [6], in nome del quale il legislatore italiano deroga alle più tradizionali regole del processo amministrativo, improntato alla tutela delle posizioni soggettive individuali, in favore della tutela di un interesse, pur sempre particolare, ma facente capo ad un soggetto pubblico e soddisfatto attraverso il mero rispetto delle regole che, a livello euro-unitario e nazionale, sono preposte alla sua garanzia.
La scelta può leggersi in un certo senso come uno sviluppo della visione delle autorità nazionali in termini di amici curiae, proposta dall’art. 15, comma 3, del regolamento europeo n. 1 del 2003.
Come noto, in base a tale disposizione, e ai paragrafi 31-35 della comunicazione sulla cooperazione con i giudici nazionali, la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri hanno la facoltà di intervenire presentando osservazioni scritte o, previa autorizzazione dell’organo giudicante, anche orali, nei giudizi pendenti dinanzi alle giurisdizioni nazionali a fini di cooperazione per la tutela della concorrenza.
La Commissione ha il potere di intervenire solo “ai fini dell’applicazione uniforme dell’articolo [101] o dell’articolo [102] del [TFUE]”; inoltre, essa limiterà le proprie osservazioni all’analisi economica e giuridica dei fatti alla base della causa pendente a livello nazionale.
Le autorità nazionali della concorrenza, invece, hanno uno spettro più ampio d’intervento, in quanto possono più genericamente attivarsi “in merito a questioni relative all’applicazione dell’articolo [101] o dell’articolo [102] del [TFUE]”.
Con riguardo a queste ultime, l’articolo 15 stabilisce solo uno standard minimo, lasciando infatti espressamente “impregiudicati i più ampi poteri di presentare osservazioni dinanzi alle giurisdizioni che siano conferiti alle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri in forza della legislazione dei rispettivi Stati membri”.
Alcuni ordinamenti nazionali avevano dunque già previsto i poteri più ampi per le autorità nazionali di concorrenza (Nell’ordinamento tedesco, ad esempio, la Bundeskartellamt ha il potere di nominare un rappresentante autorizzato a presentare delle dichiarazioni scritte, partecipare alle udienze, fornire prove e porre dei quesiti alle parti, ai testimoni ed agli esperti).
La Commissione, peraltro, anche per i presupposti più limitati di intervento, ha agito come amicus curiae dinanzi ai giudici nazionali solo nei casi più importanti aventi implicazioni di carattere generale per la politica della concorrenza e per l’applicazione coerente degli articoli 101 e 102 TFUE.
Essa ha fatto dunque un uso molto limitato dello strumento, le cui modalità di presentazione, in assenza di specifiche disposizioni regolamentari, seguono le norme procedurali nazionali, e nel caso in cui l’ordinamento di uno Stato membro non abbia ancora stabilito il quadro procedurale di riferimento, sono individuate dal giudice nazionale, tenendo conto delle esigenze di compatibilità con i principi generali del diritto UE, in particolare la tutela dei diritti fondamentali delle parti coinvolte nella causa, nonché il principio di effettività e di equivalenza [7].
Nell’esercizio del suddetto potere di collaborazione, il Regolamento riconosce tanto alle Autorithies che alla Commissione la possibilità di chiedere ai competenti organi giurisdizionali interni di trasmettere o di garantire che vengano loro trasmessi i documenti necessari alla valutazione del caso trattato, che potranno peraltro utilizzare esclusivamente ai fini della preparazione delle osservazioni.
È evidente la coerenza della linea evolutiva e, al tempo stesso, l’importanza del salto in avanti compiuto dal nostro sistema con l’introduzione dell’art. 21-bis l. n. 287 del 1990, che addirittura trasforma l’Autorità da mero interveniente in una controversia già sub judice in autonomo promotore di un giudizio.
Il modello si avvicina peraltro in qualche modo alla procedura di infrazione attivabile dalla Commissione UE e al relativo giudizio di constatazione dell’inadempienza, di cui si riscontra ormai un’ampia casistica anche avverso atti amministrativi (se ne ricordano, in via esemplificativa, rispetto a singole procedure di affidamento di appalti pubblici [8], a concessioni di trasporto [9]; al recupero di aiuti illegittimamente concessi [10]; ad accordi (“patto d'area”) per lo sviluppo industriale in zone costituenti habitat naturali protetti [11]; al mancato esperimento di una valutazione di impatto ambientale [12], ecc.).
Con l'effetto che gli atti amministrativi nazionali, adottati in materie coperte dal diritto UE, sono comunque esposti, oltre che alle possibili azioni giurisdizionali intentate dai soggetti che ne lamentino la lesione delle proprie posizioni giuridiche soggettive, al controllo operato, su iniziativa della Commissione, davanti alla Corte di giustizia.
E proprio in riferimento a queste ipotesi un’autorevole dottrina [13] ebbe qualche tempo fa a chiedersi se tale modello di garanzia dell'adempimento degli obblighi comunitari potesse essere in qualche modo utilizzato anche nel nostro sistema di giustizia amministrativa e, innanzitutto, se ve ne fosse la necessità, correlata ad eventuali nostre lacune in ordine alla garanzia di giustizia nell'azione amministrativa, soprattutto dopo l’abolizione dei controlli amministrativi sia in ordine agli atti degli enti territoriali minori (riforma del titolo V della Costituzione), sia in ordine agli atti amministrativi statali (riforma dei controlli preventivo di legittimità della Corte dei conti), che lascia circoscritto il controllo pubblico ai – più gravi e limitati – casi di responsabilità amministrativa e contabile.
Si rilevava dunque correttamente l’insufficienza del controllo affidato alla sola iniziativa dei soggetti privati [14], che peraltro, proprio nelle materie che qui interessano, trova il pesante quanto ingiusto ostacolo dell’ingente contributo unificato (aggravato in termini inaccettabili dalla legge di stabilità, che arriva addirittura a portarlo nel doppio grado a 15 mila euro).
Si suggeriva pertanto l’introduzione di una possibilità di attivazione del controllo giurisdizionale da parte delle autorità appartenenti al medesimo ente la cui normativa risulta violata, quale “importante strumento per contrastare quel deficit di legalità e quelle sacche di immunità, che l'attuale nostro sistema non è in grado altrimenti di superare”.
Il fondamento giuridico di tale potere di legittimazione, non potendosi riconoscere nella violazione di una propria norma la lesione di una posizione giuridica sostanziale del soggetto emanante, era individuato nell’obbligo di leale collaborazione (sancito dall’art. 120 Cost. e dall’art. 4 par. 3 TUE), vieppiù facilmente invocabile nei confronti dello Stato per il rispetto delle regole UE, in forza della responsabilità cui lo espone la loro violazione. Quanto meno la grave violazione di tale obbligo, come acutamente osservato dalla surriferita dottrina, implica invero la lesione di un interesse personale, specifico e qualificato dell’ente la cui norma è stata violata “Perché la sussistenza di un obbligo di leale collaborazione consente di attribuire valenza intersoggettiva ad interessi qualificati di altro ente (Stato, Regione, ecc.), correlati ai propri compiti istituzionali (ad esempio, nel campo economico e sociale) e ad ulteriori obblighi giuridici, intestati appunto a tale diverso ente”.
Ancora più agevolmente, la lesione di un interesse personale, specifico e qualificato è a mio avviso riconoscibile in capo ad un soggetto istituito per la garanzia di un determinato interesse pubblico, nell’ipotesi di violazione delle regole poste, da esso o da altri, a tutela di tale interesse.
La ratio dell’introduzione di questo tipo di enti è invero significativamente ricondotta ad una finalità di carattere “giustiziale” di protezione di interessi collettivi o diffusi, equiparati a quello pubblico e ritenuti meritevoli di una particolare protezione, perché minacciati dall’operare di “poteri forti” di tipo economico ed imprenditoriale [15].
La proposta ricostruzione consentirebbe agevolmente di superare i delicati dubbi di legittimità costituzionale sopra prospettati sotto il profilo della non riconducibilità dell’interesse alla tutela della concorrenza alle posizioni soggettive di interesse legittimo – e, in particolari materie, di diritto soggettivo – per la cui tutela la Costituzione consente il ricorso al giudice amministrativo.
Tali dubbi, come noto, sono stati già portati davanti alla Corte costituzionale dalla Regione Veneto nell’ambito di un ampio ricorso principale depositato il 23 febbraio 2012 con istanza di sospensione sulle norme Salva – Italia.
E sono stati prospettati al TAR del Lazio, sez. III-ter, in un ricorso trattenuto in decisione all’udienza del 15 novembre 2012, ma sul quale non è stata ancora depositata la sentenza.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile con sentenza n. 20 del 14 febbraio scorso.
Oltre a rilevare il difetto di legittimazione regionale a denunciare in via principale vizi che non incidono sulle competenze Stato-Regioni, la Corte ha significativamente posto in luce che la disposizione contestata non introduce un “nuovo e generalizzato controllo di legittimità”, sibbene – integrando i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi “che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Sottolinea in particolare la sentenza che il predetto potere si esterna in una prima fase a carattere consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si conformi al parere stesso.
La detta disposizione, dunque, conclude la Corte, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto, della concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, primo periodo, Cost.. Limite che evidentemente non vale per i richiamati poteri ministeriali, che presentano pertanto sicuramente maggiori dubbi di compatibilità costituzionale.
Come già anticipato in precedenti occasioni di dibattito [16], la critica di coerenza costituzionale del potere di legittimazione ad agire delle Autorità indipendenti a tutela degli interessi ad esse specificamente affidati è a mio avviso superabile con la considerazione, che infatti la richiamata dottrina non condivide sul presupposto proprio della loro natura indipendente, che esse sono per legge affidatarie della tutela dell’interesse al corretto andamento del settore vigilato, interesse che per l’AGCM si identifica nella tutela della concorrenza, sicché sono effettivamente portatrici di interessi sostanziali protetti dall’ordinamento (nella specie, nella forma dell’interesse legittimo), che si soggettivizzano in capo ad esse [17] e ne ricevono immediata lesione anche nel caso degli atti a contenuto normativo o generale, riducendosi (fino ad oggi) gli ostacoli al suo accesso diretto alla giustizia non tanto nella inconfigurabilità in capo alla stessa di un interesse sostanziale, “qualificato” in quanto fatto oggetto di una particolare considerazione dall’ordinamento e per questo differenziato da quello della generalità degli altri soggetti, ma, se mai, nella difficoltà di configurare in capo all’Autorità un interesse processuale, consistente, come noto, nella possibilità di conseguire un vantaggio personale, concreto e attuale dalla decisione.
Proprio in quanto derivanti da prescrizioni di legge ordinaria, tali condizioni possono però trovare una deroga in fonti di pari rango, nella specie sopravvenute e speciali, che, in un’ottica di massima garanzia della giustizia nell’amministrazione, identifichino, per le Authorities, tale interesse nel rispetto della legge diretta a garantire l’effettivo perseguimento dell’interesse pubblico ad esse affidato.
Del pari non sembra condivisibile l’argomento che il principio di effettività della tutela – e le regole che sul suo presupposto informano il processo amministrativo – avrebbe valenza soltanto per gli interessi dei singoli e non anche per quelli a carattere superindividuale, ancorché specificamente protetti dall’ordinamento e affidati addirittura alla cura di un soggetto appositamente istituito e deputato ad operare in posizione di “indipendenza” dall’apparato amministrativo e di Governo.
Proprio la natura indipendente delle Autorità e la specifica missione ad esse affidata (tutela di uno specifico interesse pubblico che, per le forti implicazioni economiche e sovranazionali, si vuole sottratta all’apparato governativo) giustifica infatti a mio avviso la scelta legislativa di attribuire in primis a tali soggetti, la legittimazione processuale ad agire per assicurarne la tutela.
In altri termini, il nuovo potere dell’AGCM, più che come potere di azione nell’interesse generale della legge in uno specifico settore, effettivamente di difficile riconduzione all’interesse legittimo, deve essere visto come diretta e naturale espressione dell’interesse – pubblico, ma pur sempre particolare e differenziato – alla migliore attuazione del valore “concorrenza”, di cui è specifico affidatario, anche in contrapposizione con i diversi interessi, pubblici o privati, di altri soggetti, interesse leso dalla mera violazione della legge e dall’inosservanza dell’invito (parere) a rispettarla, e dunque direttamente soddisfatto dal ripristino della legalità violata nei termini all’uopo indicati.
La proposta ricostruzione ha trovato valido conforto proprio nell’ambito della magistratura amministrativa.
In una Relazione a uno specifico convegno sul tema svoltosi recentemente a Milano, R. Giovagnoli ha giustamente sottolineato che ritenere che il ricorso affidato all’Autorità antitrust sia semplicemente diretto all’attuazione della legge, e, quindi, sorretto soltanto dall’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa, rischierebbe di disconoscere il valore della concorrenza come “bene della vita” che l’ordinamento garantisce e protegge.
Il dato di fondo da cui occorre prendere le mosse è che l’AGCM può proporre ricorso non solo e non tanto perché c’è un atto (regolamentare o amministrativo) illegittimo, ma perché quell’atto ha violato le regole in materia di concorrenza, così alterando il corretto funzionamento del mercato e il libero esplicarsi in esso della libertà di iniziativa economica su cui essa deve vigilare [18] .
Trattasi, come è agevole riscontrare, di qualcosa di diverso e di ulteriore rispetto alla semplice legalità dell’azione amministrativa. L’A., esprimendo netta adesione alla tesi qui sostenuta, evidenzia che il corretto funzionamento del mercato è certamente un bene della vita di primaria importanza, protetto a livello costituzionale e euro-unitario, un bene della vita che ha assunto oggi un ruolo fondamentale, in un contesto economico nel quale il corretto funzionamento dei mercati viene sempre più spesso indicato come fondamentale fattore di crescita e di competitività.
E ricorda che “la giurisprudenza, nazionale ed europea, ha precisato in più occasioni che le norme a tutela del mercato e della concorrenza fanno nascere situazioni giuridiche qualificate in capo a tutti i soggetti che agiscono sul mercato: in capo tanto alle imprese quanto ai consumatori, anche quest’ultimi ormai da tempo considerati soggetti direttamente tutelati”.
Ne offrono significativo esempio la giurisprudenza che consente ai consumatori di invocare la legge n. 287/1990 per ottenere il risarcimento del c.d. danno da illecito antitrust, o quella che riconosce l’impugnabilità delle archiviazioni e dei provvedimenti negativi dell’AGCM da parte di soggetti terzi, ivi comprese le associazioni dei consumatori.
Entrambi gli orientamenti si fondano invero sul presupposto che l’interesse al corretto funzionamento del mercato non è un mero interesse di fatto, ma un interesse giuridicamente rilevante, la cui lesione legittima appunto il soggetto che, nella situazione concreta, possa vantare una posizione differenziata, ad attivare i necessari rimedi giurisdizionali (dall’azione risarcitoria all’impugnazione dei provvedimenti illegittimi).
Il principale ostacolo alla “giustiziabilità” del bene “concorrenza” deriva però dal fatto che, in molte occasioni, è difficile individuare soggetti privati che rispetto a tale bene della vita si trovino in una posizione differenziata.
L’interesse alla concorrenza e dunque certamente “giuridicizzato”, ma in alcuni casi difficilmente “soggettivizzabile”.
Ciò accade in tutti quei casi in cui la lesione del mercato non si traduce anche in una lesione particolare della sfera giuridica del privato (impresa, consumatore, associazione di categoria).
In queste situazioni il rimedio giurisdizionale non è attivabile non tanto perché manca l’interesse giuridicamente rilevante, ma perché manca la posizione differenziata del singolo.
O, aggiungerei, non è facilmente “attivabile” a causa degli iniqui costi della giustizia.
La situazione, come sopra anticipato, viene assimilata a quella che caratterizza gli interessi diffusi, per i quali, come noto, il problema è stato risolto mediante la loro trasformazione in interessi collettivi di cui diventano titolare gli enti esponenziali del gruppo, dotati dei necessari requisiti di rappresentatività.
Nel caso previsto dall’art. 21-bis, in termini se possibile ancora più coerenti, la posizione differenziata è riconosciuta per legge (invece che ad un qualsiasi ente esponenziale) al soggetto pubblico istituzionalmente chiamato a tutelare il bene “concorrenza”, ovvero l’AGCM.
Alla base della norma vi è, invero, la consapevolezza da parte del legislatore dell’importanza che oggi ha assunto, anche per effetto del diritto UE, il bene “concorrenza”, bene talmente rilevante da far ritenere insufficiente la tutela rimessa solo all’iniziativa di soggetti privati che occasionalmente possano trovarsi in una situazione che li differenzi rispetto al quisque de populo e che non sempre possono avere la volontà o le possibilità economiche per azionarla.
Da qui la decisione di affidarne anche la tutela giurisdizionale al soggetto pubblico già preposto, in veste “neutrale”, alla sua garanzia.
Il disegno è coerente con la natura e le funzioni delle Autorità indipendenti e dell’AGCM in particolare, che, in termini diversi dalle Amministrazioni preposte alla cura di un interesse pubblico particolare, hanno come funzione principale quella di regolare in modo neutrale determinati settori e di assicurare il rispetto delle regole che anche dall’esterno li disciplinano; e, a tal fine, sono collocate in posizione di equidistanza da tutti gli interessi in gioco, sia quelli privati, sia quelli pubblici particolari, di cui sono titolari i soggetti che operano nei settori cui sono preposte.
Questa distinzione dovrebbe sollevare, sotto altro profilo, dal paventato timore che il nuovo potere di legittimazione a ricorrere attribuito alle Autorità indipendenti implichi una generalizzata apertura all’azione dei Ministeri a tutela degli interessi pubblici particolari cui sono preposti.
Risultano, per converso, rafforzati i dubbi di legittimità delle surriferite disposizioni sul MEF e sul MIUR, soprattutto se intese nel senso di attribuire a tali soggetti un potere generalizzato di legittimazione nel mero interesse della legge.
In conclusione, le precedenti considerazioni consentono di affermare che la scelta di affidare alle Authorities il potere di agire direttamente a tutela degli interessi affidati alla loro vigilanza, che, ripeto, si distinguono dall’interesse generale e “vuoto” di contenuti al rispetto della legge affidato al potere del pubblico ministero, è una scelta di stretto diritto positivo, che non è condizionata dal vigente quadro costituzionale.
Il quadro legislativo e giurisprudenziale offre del resto sempre più frequenti esempi di aperture alla legittimazione di soggetti pubblici e di associazioni ad agire a tutela di interessi superindividuali.
Si segnalano in primis le due ipotesi di legittimazione delle associazioni di categoria ad agire a tutela degli interessi collettivi e degli interessi diffusi previste dall’art. 4 l. 180 del 2011, che, per un verso legittima le associazioni rappresentate in almeno cinque camere di commercio e le loro articolazioni territoriali e di categoria ad agire in giudizio «sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia [ed è questo l’elemento di novità] a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti»; e, per l’altro, legittima le associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale «ad impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi».
Come è stato giustamente sottolineato, la speciale legittimazione riconosciuta alle associazioni di categoria, ai vari livelli e secondo il grado di rappresentatività, sta a significare non solo il definitivo superamento di alcune acquisizioni giurisprudenziali circa i limiti, i presupposti e le condizioni di azionabilità di procedure e provvedimenti nel settore della concorrenza, del mercato e dell’attività d’impresa, ma comporterà un notevole ampliamento della capacità di intervento per il rispetto delle norme poste a tutela della libertà di impresa, e, in generale, dei principi codificati nello Statuto delle imprese [19].
Una significativa anticipazione della progressiva apertura della legittimazione ad agire è rinvenibile nel d. lgs. n. 198 del 2009, che, in attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, aveva riconosciuto la possibilità di agire in giudizio per «ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio», oltre che ai singoli titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, alle “associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati” [20].
In tale disposizione la giurisprudenza amministrativa ha trovato il sostegno normativo per individuare un criterio idoneo a riconoscere la legittimazione ad agire correlata “per un verso, all’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, per altro verso, alla riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare, ed infine, all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi”.
Per questa strada, il G.A. ha così riconosciuto all’Ente locale territoriale, ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità nelle materie di competenza istituzionale, una più ampia legittimazione per “altre materie non direttamente conferitegli dalla legge”. [21] In particolare è stato riconosciuto all’Ente pubblico territoriale, in quanto già individuato ex lege quale ente esponenziale degli interessi dei propri amministrati, la potestà di impugnare il provvedimento avente ad oggetto gli aumenti dei pedaggi autostradali “giacché i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi, possono trovare modi di esercizio paralleli e ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura a un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc” [22] .
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A prescindere dalla rilevata possibilità di “soggettivizzare” l’interesse alla tutela della concorrenza in capo all’AGCM, il nuovo potere di legittimazione a ricorrere conferitole dall’art. 35 d.l. “salva Italia” non appare peraltro in ineludibile contrasto con l’attuale assetto costituzionale.
Due, a mio avviso, gli argomenti spendibili in questo senso. In primis, e con valore assorbente, la necessaria correlazione dei poteri giurisdizionali riconosciuti dall’art. 103 al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa con il surrichiamato ruolo di garante della “giustizia nell’amministrazione” che l’art. 100 Cost. riconosce allo stesso Giudice , ruolo più volte sottolineato dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. 204 del 2004 e significativamente richiamato anche dal Presidente del Consiglio di Stato Giancarlo Coraggio nel suo discorso di insediamento [23]: un ruolo perfettamente in linea con una legittimazione di una Autorità indipendente di agire nell’interesse del rispetto delle norme di cui è garante, anche per tutelare posizioni soggettive di terzi lesi dalla loro violazione da parte della p.A.; in aggiunta, non è senza rilievo il richiamato valore primario che l’ordinamento costituzionale ed euro-unitario riconoscono alla concorrenza, cui si correla la riferita responsabilità dello Stato per la violazione delle norme UE[24] e la coerente attribuzione ad un organo pubblico del potere di agire a tutela delle lesioni arrecate alle posizioni giuridiche soggettive dalla violazione delle norme che tutelano tale valore.
Come già osservato in sede di riflessione a prima lettura sulle novità legislative di fine 2011 sul processo amministrativo [25], il giudizio che viene instaurato dall’Autorità si spoglia in quest’ottica dalle vesti tipiche del tradizionale giudizio di parti per uno specifico e concreto vantaggio del ricorrente, per assumere connotazioni più propriamente oggettive, in cui tale vantaggio si identifica con il rispetto delle norme che tutelano l’interesse affidato al soggetto pubblico ricorrente.
Si è addirittura parlato, come noto, in proposito, dell’introduzione di una sorta di “pubblico ministero della concorrenza” nel giudizio amministrativo.
L’assimilazione è però a ben vedere inesatta e rischia di creare confusione.
Si è già detto che il pubblico ministero, come il giudice, agisce nell’interesse della legge, senza farsi portatore di alcun interesse particolare (come acutamente osservava S. Satta, il p.m. esercita la giurisdizione in via di azione).
Di contro, l’AGCM, come sopra rilevato, agisce a tutela dell’interesse (proprio o di terzi) al rispetto delle regole sulla concorrenza, in termini al più assimilabili all’azione del Procuratore della Corte dei conti a tutela dell’erario.
Non è quindi forse corretto parlare di superamento del processo di parti, quanto piuttosto di rivisitazione della sua filosofia attraverso una valorizzazione, “potenziamento” appunto, del ruolo del soggetto affidatario della tutela di un interesse pubblico particolare, fino al punto di essere legittimato ad agire direttamente in giudizio contro gli atti e i comportamenti che, violando la legge, ne integrino una lesione, in aggiunta a quella dei diritti e degli interessi degli operatori, pubblici o privati, specificamente coinvolti.
Con la conseguenza che anche i “paletti” posti dalla giurisprudenza amministrativa in tema di legittimazione all’impugnazione degli atti di gara (cfr. da ultima, la discussa sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2011)[26] o i nuovi gravosi oneri di accesso alla giustizia [27] potrebbero sostanzialmente essere superati attraverso una denuncia all’AGCM e un successivo ricorso da parte di quest’ultima.
Anche su questo punto la Regione Veneto aveva riscontrato un contrasto con i principi costituzionali in tema di ragionevolezza, buona amministrazione, di giustizia amministrativa e di leale collaborazione, che, oltre ad essere denunciato in termini assolutamente generici (come correttamente rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 20 del 2013), non appariva, però, sussistente.
Con riferimento alla tendenza verso una maggiore oggettivizzazione del giudizio amministrativo, timidamente anticipata dall’art. 146 comma 11 del Codice dei beni culturali e del paesaggio nel testo approvato con d. lgs. n. 42 del 2004 (ma repentinamente abrogato nelle successive modifiche),[28] merita ricordare che essa è stata da più parti correttamente riscontrata anche nelle nuove disposizioni introdotte nel rito speciale sulle controversie in materia di contratti pubblici in attuazione della Direttiva 2007/66, trasfuse, con alcune modificazioni, negli artt. 120 ss. del c.p.a. [29]. A tutela dell’interesse generale al rispetto delle regole dell’evidenza pubblica e in deroga al principio di stretta corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il legislatore ha infatti, come noto, riconosciuto al giudice adito contro il provvedimento di aggiudicazione il potere/dovere di dichiarare in ogni caso la cessazione di efficacia del contratto stipulato in esito alle più gravi violazioni delle regole pro-concorrenziali, a prescindere da una specifica richiesta in tal senso.
Analoga ratio informa l’introduzione del nuovo sistema di sanzioni amministrative, che il giudice, d’ufficio, è chiamato a disporre in alternativa alla dichiarazione integrale di inefficacia del contratto, quando, pur in presenza delle suddette più gravi violazioni, questa non sia possibile.
Come era stato autorevolmente prospettato proprio con riguardo a tali ultime previsioni[30], in coerenza con il richiamato ruolo di garanzia della “giustizia nell’amministrazione” affidato al Consiglio di Stato dall’art. 100 cost., le nuove disposizioni potrebbero quindi aprire la strada ad una progressiva estensione di un giudizio amministrativo di tipo oggettivo, legata peraltro pur sempre alla tutela di interessi generali primari (quali l’ambiente, la salute, la sicurezza, il paesaggio, ecc.), con nuove forme di legittimazione “pubblica” a ricorrere ovvero con meccanismi di indebolimento dello stretto rapporto chiesto/pronunciato (anche mediante l’eventuale irrinunciabilità dell’azione) o con l’introduzione di ulteriori sanzioni.
Il riferimento ad interessi relativi a materie affidate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato varrebbe sotto altro profilo a sgombrare il campo, come già sottolineato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 20 del 2013, da censure di indebita interferenza con le autonomie locali. Già in precedenti occasioni ho peraltro ricordato a questo proposito che l’autonomo fondamento costituzionale del controllo giurisdizionale sugli atti amministrativi (artt. 24, 103, 113 e 125 Cost.) esclude che l’autonomia delle Regioni e degli enti locali possa implicare una limitazione del sindacato giurisdizionale, tanto in ordine agli atti impugnabili e alle censure proponibili, quanto in ordine agli interessi tutelabili e ai soggetti legittimati all’azione.
Non è inutile ricordare in proposito che in riferimento ai controlli successivi della Corte dei Conti nei confronti delle amministrazioni regionali (pur trattandosi di veri e propri controlli amministrativi), la Corte costituzionale rigettò le censure di costituzionalità avanzate, anche in considerazione del ruolo di “garante imparziale” rivestito dalla Corte dei Conti, a servizio dello Stato-comunità e non solo dello Stato-governo[31].
Il che non può non valere, a fortiori, nei confronti del Giudice amministrativo32.
L’ambito dell’azione.
Tornando alla disamina della disciplina positiva, il primo tema meritevole di attenzione è costituto dallo stesso ambito di applicazione del nuovo potere.
L’ampia formulazione della norma, che, come si è visto, attribuisce all’AGCM una legittimazione ad impugnare qualsiasi atto (a contenuto normativo, generale o anche particolare) assunto da una pubblica amministrazione in violazione delle norme “a tutela della concorrenza e del mercato”, le consente indubbiamente un vasto spettro di intervento, che, tuttavia, proprio per la sua eccezionalità, non può essere esteso al di là della specifica violazione delle disposizioni dell’ordinamento positivo effettivamente dirette alla tutela della concorrenza e del mercato, ivi compreso l’eccesso di potere, in quanto rientrante nella più ampia categoria dei vizi di legittimità, ma senza potersi spingere ad abbracciare, seguendo un approccio economico-sostanzialista, ogni astratta lesione del benessere del consumatore (troppo legata a parametri di tipo soggettivo e dunque pericolosamente arbitrari).
Quanto alla tipologia delle disposizioni riconducibili alla violazione delle regole a tutela della concorrenza e del mercato, vengono innanzi tutto in considerazione, anche per l’evidente analogia con le surrichiamate disposizioni del Regolamento UE del 2003, gli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, i quali, individuando rispettivamente le caratteristiche dell’intesa anticoncorrenziale e dell’abuso di posizione dominante, rappresentano le principali fonti di riferimento dell’azione antitrust in ambito europeo.
Il nuovo potere di azione dell’AGCM si viene così ad aggiungere all’attuale sistema di reazioni configurate dall’ordinamento, interno ed euro-unitario a tali illeciti e, in particolare, per quanto riguarda il diritto nazionale, a rafforzare i due modelli del private enforcement, attraverso l’azione davanti al g.o. ex art. 33 l. n. 287 del 1990 e del public enforcement, affidato al potere di vigilanza e di controllo della stessa Autorità, già deputata, nell’ambito del sistema disciplinato dal regolamento n. 1 del 2003, ad esercitare un potere di accertamento e di sanzione nei confronti delle imprese ovvero di segnalazione al Parlamento (art. 21 l. n. 287), nei confronti degli atti di natura legislativa o regolamentare nonché dei provvedimenti amministrativi di carattere generale che determinano o semplicemente consentono distorsioni della concorrenza o del mercato senza trovare giustificazione in esigenze di carattere generale.
Quanto meno rispetto ad atti amministrativi assunti in violazione dei principi espressi da tali articoli e delle interpretazioni che ne ha dato la giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sembra dunque possibile escludere l’azione diretta dell’Autorità davanti al TAR, sicuramente più efficace del suddetto potere di segnalazione al Parlamento.
Un altro possibile ambito di impugnazione è stato poi correttamente configurato dai primi migliori commentatori 33 negli atti amministrativi assunti in contrasto con il divieto di aiuti di Stato di cui agli artt. 107 ss. del Trattato, laddove l’accertamento di illegittimità dell’aiuto sia stato già effettuato dalla Commissione, alla quale come noto l’ordinamento UE riserva la relativa competenza.
Una sfera nella quale, stante la stretta correlazione con la tutela concorrenza ripetutamente riconosciuta anche dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Giustizia, l’AGCM dovrebbe poter sicuramente intervenire, nonostante le perplessità espresse dalla medesima dottrina 34, è quella delle procedure concorsuali, ivi comprese quelle che, pur formalmente rispettose del sistema pro-concorrenziale, integrino nei contenuti delle regole di ammissione e/o di selezione o nella loro concreta attuazione una violazione delle sue norme formali e/o sostanziali, eludendone i principi informatori.
In senso favorevole a tale possibilità di ricorso opera del resto il già richiamato rinvio all’intero titolo V del libro IV del c.p.a., che, salvo l’art. 119, si occupa proprio del contenzioso in materia di appalti pubblici.
Lo stesso Presidente dell’Autorità aveva poi in varie occasioni posto l’accento sulla diretta correlazione tra il nuovo potere di legittimazione ad agire e quello, esso pure frutto degli ultimi interventi legislativi, di intervenire, in via consultiva, sull’affidamento dei servizi pubblici locali: ora, come noto, questo potere è venuto meno per effetto della sentenza n. 199/2012 della Corte costituzionale.
La medesima correlazione sussiste peraltro rispetto al nuovo potere consultivo affidato all’AGCM, nella forma anzi del parere vincolante, dall’art. 4 d.l. 95 del 2012 (sulla c.d. spending review) sulla decisione delle pubbliche amministrazioni di non dismettere le società controllate per l’esercizio di attività strumentali in esito ad un’analisi che riveli l’impossibilità di un efficace e utile ricorso al mercato.
Si è già detto poi che il nuovo art. 21-bis l.n. 287 riconosce in via generale all’AGCM la legittimazione ad impugnare qualsiasi atto (a contenuto normativo, generale o anche particolare) assunto da una “pubblica amministrazione”.
Quest’ultima precisazione è molto importante: la regola, in quanto eccezionale, non trova dunque applicazione alle imprese pubbliche 35 e, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione36, agli organismi di diritto pubblico, che, se sono equiparabili ed equiparati alle pubbliche amministrazioni ad alcuni fini, non sono però perfettamente identificabili con le medesime.
Si esclude pertanto il ricorso diretto contro le decisioni dei soggetti diversi dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 (penso alle società pubbliche, ai consorzi istituzionali ecc.) che pongano in essere comportamenti anticoncorrenziali.
Ulteriori questioni investono il carattere facoltativo o doveroso dell’azione, i termini per il relativo esercizio dell’azione e il ruolo del parere previsto dal secondo comma dell’art. 21-bis, il quale dispone che l’AGCM trasmette all’Amministrazione autrice del provvedimento un proprio parere motivato sui profili di illegittimità riscontrati (all’evidente fine di un riesame) e, qualora essa non vi si conforma entro i successivi 60 giorni, valuta (evidentemente anche alla luce delle eventuali controdeduzioni svolte dell’Amministrazione) se proporre o meno ricorso (nel termine “breve” di trenta giorni).
Nonostante la contraria opinione espressa da altri autorevoli commentatori37, la lettura testuale della disposizione e la perfetta coincidenza oggettiva con il precedente comma 1 non sembrano a mio avviso lasciare spazio ad un ricorso non preceduto dal parere.
Considerato che peraltro il legislatore non fissa alcun termine per l’espressione del parere (che vale del resto a rafforzare il rapporto tra legittimazione a ricorrere e lesione di un interesse dell’AGCM), il modello rischia di contraddire all’esigenza di immediatezza della tutela avverso gli atti lesivi della concorrenza, confermata anche dal rinvio al rito speciale accelerato di cui all’art. 119 c.p.a.38 .
Proprio il diritto europeo, nella Direttiva 2007/66 sui ricorsi in materia di appalti, espressamente richiamando anche la Carta di Nizza, ma anche in diverse sentenze della Corte di Giustizia, pone tuttavia espressamente la sospensione immediata dell’efficacia dell’atto lesivo delle regole pro-concorrenziali come imprescindibile corollario del principio di effettività della tutela.
L’obbligo del previo procedimento stragiudiziale e la mancata previsione di termini per la relativa attivazione desta pertanto, da un lato, evidenti problemi di certezza del diritto, consentendo un intervento del giudice anche a distanza di mesi o anni e preclude dall’altro alla stessa AGCM, nel caso in cui essa riesca ad attivarsi in modo celere, di impedire che l’atto contestato produca i suoi effetti.
Ciò che, se sicuramente pone fondati dubbi di compatibilità costituzionale sotto il profilo della violazione del principio della ragionevolezza denunciato anche dalla Regione Veneto e degli artt. 24 e 103 Cost., potrebbe addirittura giustificare una disapplicazione del secondo comma, quanto meno nei casi di violazioni più gravi in cui la sospensione appaia l’unico strumento per conseguire una tutela effettiva.
Occorre invero a questo riguardo osservare che, una volta riconosciuto in capo all’AGCM un interesse qualificato ad impugnare gli attivi lesivi della concorrenza, non ha all’evidenza alcuna logica privare tale interesse della forma più efficace di tutela, spesso indispensabile ad assicurare, all’esito del giudizio, quella ripristinatoria, che, proprio per la peculiarità del soggetto e del valore protetto, non può essere validamente sostituita da quella risarcitoria.
Ricordo in proposito che la Direttiva ricorsi – e il principio è all’evidenza valido, quantomeno, per tutte le controversie in materia di concorrenza – ha espressamente chiarito che la tutela contro la violazione delle regole che la disciplinano non può essere adeguatamente soddisfatta attraverso il risarcimento del danno per equivalente.
E meno ancora, si ripete, tale forma di soddisfazione può dirsi sufficiente per l’interesse affidato all’AGCM, che, per la sua rilevanza pubblica, non può essere ridotto ad una mera compensazione economica.
Proprio la natura ultraindividuale dell’interesse protetto rende poi, a mio avviso, ancora più importante la tutela cautelare, che già la novella legislativa del 2006 (introducendo un art. 14-bis alla l.n. 287) aveva consentito all’Autorità di esercitare in via diretta, con l’adozione di proprie misure cautelari, in esito ad una constatazione in via sommaria della sussistenza di un’infrazione, nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza.
In particolare, il nuovo potere di azione dell’AGCM potrebbe poi consentire la richiesta (e l’ottenimento) della sospensione (e magari dell’obbligo giurisdizionale di riesame) di quegli atti che, per il loro contenuto non immediatamente lesivo di interessi individuali) non sono impugnabili da parte dei singoli, con l’indubbio vantaggio di impedire la prosecuzione di un procedimento o l’applicazione di regole lesive della concorrenza.
Le conclusioni raggiunte nella prima parte della Relazione sulla costruzione del potere dell’Autorità come diritto all’azione a tutela di un bene della vita affidato alla sua garanzia inducono sotto altro profilo ad escludere che l’azione costituisca un atto dovuto (tale che i privati potrebbero contestare l’inerzia dell’Autorità di fronte ad una loro sollecitazione) e che essa non sia soggetta ai termini ordinari di decadenza.
La coerenza del carattere meramente facoltativo dell’azione, oltre che dall’evidente impossibilità di seguire tutti i casi di lesione della concorrenza, è confermata, come ben evidenziato da F. Arena 38, anche dai principi giurisprudenziali emersi in sede comunitaria in base ai quali – in una prospettiva analoga a quella di cui in questa sede si discute, ossia l’attivazione di una procedura di infrazione nei confronti di uno Stato membro – si ritiene irricevibile il ricorso proposto da un privato avverso il rifiuto della Commissione di adottare una decisione nei confronti dello Stato membro volta a contestare l’infrazione.
Mentre non sembra neppure il caso di soffermarsi sull’autonoma impugnabilità del parere (chiaramente esclusa dalla sua natura endoprocedimentale), merita infine dedicare un ultimo accenno al successivo comma 3, che dispone che al giudizio instaurato dall’Autorità si applica la disciplina disegnata dal titolo V del libro IV del c.p.a.. Nonostante i primi commenti non lo abbiano rilevato, la disposizione è in questi termini assolutamente criptica: il titolo V si occupa invero tanto, all’art. 119, del “rito speciale comune a particolari materie” considerate economicamente o politicamente più “sensibili”, tra cui, in particolare le controversie sugli atti delle autorità amministrative indipendenti (essenzialmente caratterizzato dalla dimidiazione dei termini processuali diversi dalla proposizione dei ricorsi di primo grado e da un maggiore rigore nella concessione delle misure cautelari), quanto, agli artt. 120 ss., del rito super speciale per le controversie sugli atti di affidamento di lavori, servizi e forniture.
La novella non chiarisce tuttavia quale dei due riti trovi effettivamente applicazione ai giudizi de quibus.
La logica farebbe ritenere che la specialissima disciplina del rito appalti trovi applicazione esclusivamente ai giudizi instaurati dall’AGCM in questa materia, valendo in ogni altro caso le regole meno complesse di cui all’art. 119.
A prescindere dall’anomalia dell’applicazione di un regime cautelare più rigido per i ricorsi proposti da un organo titolare di un potere pubblico nell’interesse al migliore rispetto delle norme sulla concorrenza, sarà poi in ogni caso necessario stabilire gli opportuni adattamenti delle regole di cui agli artt. 120 ss. (improntate al rapporto tra impresa e stazione appaltante ed eventuali aggiudicatari, in una logica di bilanciamento dei diversi interessi, anche ai fini della tutela del contraente e dell’eventuale risarcimento per equivalente) al nuovo giudizio.
A ciò si aggiunge il silenzio della legge sull’individuazione del giudice competente, che non consente di estendere ai giudizi de quibus, la competenza funzionale del TAR del Lazio, nel quale sono invece concentrate a norma dell’art. 135 c.p.a. le controversie contro i provvedimenti delle Autorità per la concorrenza, per i contratti e per le telecomunicazioni, evidentemente in considerazione dell’esigenza di riunire di fronte ad un unico giudice le questioni attinenti alle determinazioni tecnico-giuridiche assunte da tali particolari organismi in nome dei primari interessi economici ad essi affidati.
Il generico richiamo al titolo V del libro IV, comprensivo, come si è visto, anche del rito sugli appalti, giustifica invero la mancata previsione di una riserva di competenza nel TAR capitolino anche dei giudizi azionati dall’Antitrust in subiecta materia, magari confluenti con quelli proposti contro i medesimi provvedimenti dagli operatori economici direttamente lesi: sicché non sarebbe corretto spostare la competenza in funzione della natura di uno dei soggetti ricorrenti.
Molti, in ogni caso, i problemi di disciplina positiva su cui si auspica la riflessione della dottrina e della giurisprudenza e, laddove possibile, un sollecito intervento chiarificatore da parte del legislatore.
Convegno 28 febbraio 2013
Le Autorità Amministrative Indipendenti
Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati
Palazzo Spada - Piazza Capo di Ferro, 13 Roma
[1] - Si rimanda sul punto a M.A. Sandulli, Considerazioni conclusive, in M.A. Sandulli (a cura di), Il ruolo del giudice: le magistrature supreme, Atti del Convegno, svoltosi presso l’Università degli studi “Roma Tre” il 18 e 19 maggio 2007, in www.giustamm.it e in Quaderni del Foro amm.-TAR, 2007; Id, Fonti e principi della giustizia amministrativa, in www.federalismi.it 2008.
[2] - La tesi è così correttamente ricostruita da R. Giovagnoli, Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell’AGCM nell’art. 21-bis legge n. 287/1990, Relazione al convegno tenutosi presso l’Università degli studi di Milano il 27 settembre 2012, in www.giustamm.it.
[3] - Il processo davanti al giudice amministrativo nelle novità legislative della fine del 2011, inwww.giustamm.it www.federalismi.it e in Foro amm. TAR, 2011. Analogamente, ma evidenziandone le criticità, F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 21 bis della legge n. 287 del 1990), in www.giustamm.it
[4] - R. Giovagnoli, cit.
[5] - F. Cintioli, cit.
[6] - Cfr. anche A. Police, Tutela della concorrenza e pubblici poteri, Torino, 2007, pp. 129 ss., che sottolinea come, nel settore antitrust, la “politica della concorrenza”, volta alla promozione del confronto competitivo tra operatori economici, costituisce uno dei valori fondanti dell’Unione europea.
[7] - Il primo caso in cui la Commissione ha presentato delle osservazioni scritte ha riguardato la causa Garage Gremeau dinanzi alla Corte d’Appello di Parigi, concernenti l’interpretazione del concetto di distribuzione selettiva quantitativa ai sensi del regolamento della Commissione 1400/2002, sull’esenzione in blocco di alcuni accordi riguardanti il settore dell’automobile. Il secondo caso ha riguardato la deducibilità ai fini fiscali delle ammende imposte dalla Commissione per la violazione del diritto europeo della concorrenza. La presentazione delle osservazioni è avvenuta dinanzi alla Corte d’Appello di Amsterdam, dopo che i giudici di primo grado, si erano espressi a favore della deducibilità. Il caso in questione è stato arricchito di ulteriore interesse dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE da parte della Corte d’Appello di Amsterdam, in cui i giudici UE si pronunciarono a favore dell’intervento della Commissione ex articolo 15(3) regolamento 1/2003, nonostante il procedimento nazionale non riguardasse direttamente l’applicazione dell’articolo 101 o 102 TFUE, quanto la materia fiscale, e ciò in ragione dell’efficacia della sanzione irrogata dalla Commissione (Vedi, la sentenza della Corte di giustizia dell'11 giugno 2009, Causa C-429/07, X BV, in Raccolta, 2009, p. I-000).
Il terzo caso riguarda la presentazione di osservazioni scritte dinanzi alla Corte d’Appello di Parigi, concernenti l’applicazione del regolamento 2790/1999 sull’esenzione di alcuni accordi verticali, ed in particolare la restrizione delle vendite su internet nell’ambito di una rete di distribuzione selettiva. Anche in questo caso, i giudici nazionali hanno optato per il ricorso in via pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia UE (Vedi, la Causa C-439/09, Pierre Fabre Dermo-Cosmétique).
[8] - Corte giust., Grande Sezione, 18 dicembre 2007, in causa C-532/03, Commissione/Irlanda; Corte giust., sez. I, 4 giugno 2009, causa C-250/07, Commissione/Grecia; Corte giust., Grande Sezione, 13 novembre 2007, causa C-507/03, Commissione/Irlanda; Corte giust., sez. III, 18 luglio 2007, causa C-503/04, Commissione/Germania.
[9] - Corte giust., sez. II, 9 marzo 2006, causa C-323/03, Commissione/Spagna.
[10] - Corte giust., Grande Sezione, 7 luglio 2009, causa C-369/07, Commissione/Grecia.
[11] - Corte giust., sez. II, 20 settembre 2007, causa C-388/05, Commissione/Italia; Corte giust., sez. IV, 4 ottobre 2007, causa C-179/06; Commissione/Italia.
[12] - Corte giust., sez. II, 5 luglio 2007, in causa C-255/05, Commissione/Italia.
[13] - G. Greco, Il modello comunitario della procedura di infrazione e il deficit di sindacato di legittimità dell’azione amministrativa in Italia, , in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2010,
[14] - Rileva infatti l’A. che “non si può pretendere che siano i cittadini, per mezzo dei loro ricorsi, a costituire i “gendarmi” dell'ordinamento e le uniche vestali dello stesso. Anche perché in taluni casi – e soprattutto nei provvedimenti a più elevato contenuto organizzativo (si pensi agli affidamenti in house, alle proroghe delle concessioni, dei contratti, ecc.)- è difficile ipotizzare la lesione di posizioni sostanziali di singoli cittadini o imprese private, che rimangono del tutto estranei a tali vicende”.
[15] - M. D’Alberti, Autorità indipendenti, in Enc. giur., IV, 1995, parla a tale proposito dei c.d. public interests at large costituiti da consumatori, risparmiatori, investitori, utenti di servizi pubblici, cioè da ampi gruppi di amministrati.
[16] - M.A. Sandulli, Il nuovo potere di ricorso dell’AGCM a tutela della concorrenza, Relazione al Convegno dell’AIGE (associazione italiana giuristi europei) sul tema Norme europee sulla concorrenza e tutela dinanzi al giudice amministrativo EU Competition Law and the enforcement before the administrative Courts, svoltosi nell’Università di Roma Tre il 19 aprile 2012 e Introduzione all’Incontro di studio su L’azione di annullamento, L’azione di annullamento nel codice del processo amministrativo e nelle sue applicazioni giurisprudenziali, svoltosi nell’Università di Roma Tre il 26 aprile 2012.
[17] - In senso radicalmente contrario, F. Cintioli, op. cit.: “La risposta dev’essere negativa. Non è possibile ritenere che l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse generale alla concorrenza che, per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività e, per altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un soggetto di diritto”. La posizione negativa sembra condivisa anche da F. Arena, Atti amministrativi e restrizioni della concorrenza: i nuovi poteri dell’Antitrust italiana, Relazione al X Convegno Antitrust svoltosi a Treviso nei giorni 18 e 19 maggio 2012.
[18] - Il mercato è tutelato “in quanto luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio della impresa, è perciò stesso luogo della competizione, cosicché ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione” (Cass. Sez. Un. 4 febbraio 2005, n. 2207).
[19] - P. Quinto, Le imprese protagoniste nel processo amministrativo: una nuova dimensione dell’interesse legittimo, in www.giustamm.it. Rileva in particolare l’A. che “Sotto il primo aspetto, l’associazione di categoria maggiormente rappresentativa sarà legittimata ad impugnare, in quanto lesivi degli interessi diffusi, i bandi di gara senza il vincolo della presentazione della domanda di partecipazione delle imprese rappresentate, anche quando il bando non contenga clausole escludenti, bensì in tutti i casi di riscontrata difficoltà a formulare offerte remunerative in condizioni di modi e termini idonei a favorire la più diffusa partecipazione.
Sotto l’aspetto più squisitamente istituzionale, la casistica di intervento delle associazioni di categoria, titolari di una legittimazione a tutela di interessi diffusi, assume dimensioni difficilmente comprimibili.
È sufficiente in proposito fare riferimento alle definizioni ed ai contenuti dello Statuto delle imprese e dell’imprenditore, che si pone come obiettivo il «riconoscimento del contributo fondamentale delle imprese alla crescita dell’occupazione e alla prosperità economica», «favorire la competitività del sistema produttivo nazionale nel contesto europeo ed internazionale», «adeguare l’intervento pubblico e l’attività della pubblica amministrazione alle esigenze della micro, piccola e media impresa» ancorché nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente.
In questo quadro vi sono margini notevoli perché atti e provvedimenti della P.A., sia a contenuto generale che particolare, possano essere impugnati in sede giurisdizionale perché confliggenti o lesivi della disciplina statutaria e della libertà d’impresa. A titolo meramente indicativo, ma sulla base di una specifica previsione normativa, ad esempio, «nei provvedimenti amministrativi a carattere generale che regolano l’esercizio di poteri autorizzatori, concessori o certificatori, nonché l’accesso ai servizi pubblici o la concessione di benefici, non possono essere introdotti nuovi oneri regolamentari, informativi o amministrativi a carico dei cittadini, imprese ed altri soggetti privati senza contestualmente ridurre o eliminarne altri»”.
[20] - La più recente giurisprudenza amministrativa ha poi osservato che la disciplina transitoria di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 198/2009, laddove subordina l’applicabilità delle norme all’adozione di decreti attuativi deputati a definire gli obblighi contenuti nelle carte dei servizi, non opera nell’ipotesi in cui il legislatore abbia già delineato il comportamento esigibile dell’amministrazione. L’azione è, quindi, direttamente esperibile nell’ipotesi di omissione o tardiva emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 20 giugno 2011, n. 552, confermata dal Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 giugno 2011, n. 3512). Da cui l’ulteriore considerazione che, una volta riconosciuta la legittimazione processuale delle associazioni di categoria delle imprese e la loro rappresentatività degli interessi diffusi in quel settore, non può essere disconosciuta la legittimazione di dette associazioni a proporre azioni per l’efficienza della Pubblica Amministrazione, ricorrendone i presupposti legali ed in presenza degli interessi categoriali. Significativamente il TAR della Basilicata (Sez. I, 23 settembre 2011, n. 478) accogliendo il ricorso di una associazione privata, della quale ha riconosciuto il grado di rappresentatività di interessi diffusi degli utenti, ha condannato la Regione a consentire di interloquire tramite posta elettronica certificata e a rendere visibile nella home page del sito l’elenco degli indirizzi di posta elettronica certificata, come imposto dalle “Linee guida” dettate dal Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione.
[21 ]- Consiglio di Stato, Sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8683.
[22] - Operando un utile collegamento tra le surrichiamate disposizioni, è stato osservato che “applicando un siffatto paradigma in diversa direzione e con riferimento ad altri soggetti (come appunto le associazioni di categoria degli imprenditori), ai quali il legislatore ha riconosciuto la rappresentatività degli interessi collettivi degli aderenti e degli interessi diffusi di natura categoriale, si può comprendere come sia stata ampliata la capacità di agire in sede giudiziaria di questi soggetti a tutela di una molteplicità di interessi in attuazione dell’art. 45 Cost., afferenti all’economia, al mercato, alle regole della concorrenza e per l’efficienza della P.A.. E, quindi, come il precetto contenuto nell’art. 1, che consente di agire al fine di ripristinare il corretto svolgimento delle funzioni o la corretta erogazione di un servizio, sia direttamente riferibile alle predette Associazioni, in virtù dell’art. 4 della legge n. 180 del 2011”.
[23] - Leggibile su www.giustizia-amministrativa.it
[24] - Quest’ultimo elemento è valorizzato in particolare da F. Arena, op. cit., che testualmente riconosce nello scopo perseguito dalla disposizione – id est la promozione di un valore costituzionalmente garantito, quale la concorrenza – l’idoneità a “fronteggiare perplessità, pur comprensibili, anche con riferimento al sistema di giustizia amministrativa delineato in Costituzione”.
[25] - M.A.Sandulli, Il processo davanti al giudice amministrativo nelle novità legislative della fine del 2011, in Osservatorio del Foro amm. TAR, 12, 2011.
[26] - Si tratta della nota sentenza sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, nella quale, in merito al particolare profilo della tutela dell'interesse "strumentale", il Supremo Consesso, nella sua composizione plenaria, ha anche affermato che: "in linea generale, il possibile vantaggio ottenibile dalla pronuncia di annullamento non risulta affatto idoneo a determinare, da solo, il riconoscimento di una situazione differenziata, fondante la legittimazione al ricorso.In particolare, a tale fine risulta del tutto insufficiente il riferimento a una utilità meramente ipotetica o eventuale, che richiede, per la sua compiuta realizzazione, come avviene nella vicenda in esame, il passaggio attraverso una pluralità di fasi e di atti ricadenti nella sfera della più ampia disponibilità dell'amministrazione (…) infatti, l'eventuale "interesse pratico" alla rinnovazione della gara, allegato dalla parte ricorrente, non dimostra, da solo, la titolarità di una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso. Tale aspettativa non si distingue da quella che potrebbe vantare qualsiasi operatore del settore, che aspiri a partecipare ad una futura selezione".In dottrina si vedaF. Saitta, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, in Riv. trim. app., 2001, 563 ss.; L.R. Perfetti, Interesse a ricorrere e confini dell'azione di annullamento. Il problema dell’impugnazione del bando di gara, in Dir. proc. amm., 2003, 809 ss.; D. Vaiano, L’onere di immediata impugnazione del bando e della successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere, ivi, 2004, 697 ss..
[27] Su cui v. in senso fortemente critico M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in Foro amm. –TAR, Osservatorio della giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, 2012.
[28] - La disposizione (su cui si richiama l’immediato commento di M.A. Sandulli, Verso un processo amministrativo “oggettivo” (nota a margine dell’art. 146 co. 11 d.lgs. n. 42 del 2004), in Foro amm.-TAR, 2004) prevedeva infatti, da un lato, un “obbligo di decisione” dei ricorsi proposti avverso i provvedimenti di autorizzazione paesistica anche nell’ipotesi di rinuncia o di sopravvenuto venir meno dell’interesse da parte del ricorrente (comma 11, primo periodo) e, dall’altro, la possibilità dei soggetti legittimati a ricorrere avverso l’autorizzazione (identificati dallo stesso comma 11 nelle associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi ex art. 13 l n. 349 del 1986 e in qualsiasi altro soggetto pubblico o privato che ne abbia interesse) di proporre appello avverso le ordinanze o le sentenze del TAR in materia anche nelle ipotesi in cui non avessero proposto il ricorso di primo grado (secondo periodo). Si osservava quindi, nel suddetto commento, che “Se questa seconda parte della disposizione incide, come si è detto, soltanto sul profilo della decadenza dell’azione o tutela di interessi legittimi, e dunque costituisce in sostanza una norma processuale eccezionale, ma “neutra”, la prima parte incide invece profondamente sulla natura stessa del processo amministrativo. Sono note le ipotesi di riforma dirette ad introdurre una sorta di “azione pubblica obbligatoria” (analoga a quella prevista dall’art. 112 cpp) a tutela della legittimità degli atti amministrativi, finora però sempre contrastate. Così come è nota la più recente tendenza a consentire al ricorrente la scelta tra tutela risarcitoria e tutela caducatoria, giustificata (contro chi, come chi scrive, ne ha più volte rappresentato il forte rischio di eversione dei principi di buon andamento e di legalità sostanziale[2]) con il richiamo alla “disponibilità” del processo da parte del ricorrente, che, si è detto, come può in qualunque momento rinunciare in toto alla tutela, può anche sceglierne le modalità, preferendo il risarcimento per equivalente alla caducazione del provvedimento impugnato.
Particolarmente rilevante appare quindi, anche in quest’ottica, la previsione dell’art. 146, co. 11, che (al di là dei problemi di costituzionalità che indubbiamente pone per la fonte in cui è inserito) sembra aprire la strada (ad avviso di chi scrive tutt’altro che inopportuna) verso un giudizio amministrativo più “oggettivo” e probabilmente più coerente con il ruolo di garante della “giustizia nell’amministrazione”, che, come ricordato dalla Corte Costituzionale nella recentissima sentenza 204 del 2004, è ad esso affidato dalla Costituzione”.
[29] - Sul tema delle sanzioni alternative si vedano per tutti i rilievi di M.A. Sandulli Inefficacia del contratto e sanzioni alternative, in Il sistema della giustizia amministrativa negli appalti pubblici in Europa, (a cura di) G. Greco, Milano, 2011 e R. Chieppa, Il processo amministrativo dopo il correttivo al Codice,, Milano, Giuffrè, 2012,.
[30] - Cfr. la Relazione del Presidente Coraggio alla Tavola Rotonda sul tema “Verso il codice del processo amministrativo” svoltasi nell’Aula magna della Corte di cassazione il 21 aprile 2010 sullo schema di c.p.a. redatto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato.
[31] - Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29.
[32] - Così anche G. Greco, op.cit.
[33] - F. Cintioli, op. cit.
[34]- F. Cintioli, ibidem.
[35] - Sulla peculiare natura delle imprese pubbliche e sui limiti della loro assimilabilità alle pubbliche amministrazioni cfr. Cons. Stato, Ad. Plen, n. 16 del 2011 e Cass. SS.UU., ord. n. 8511 del 2012.
[36] - Il riferimento è alla sentenza 22 dicembre 2011, n. 28329, con cui le SS.UU. hanno affermato la giurisdizione del g.o. sulle controversie relative alla procedura indetta dalla RAI per la selezione di alcuni giornalisti.
[37]- R. Chieppa, R. Giovagnoli.
[38]- Cfr. M. Libertini, I nuovi poteri dell’Autorità antitrust, in www.federalismi.it
[39] - Op. cit.
Autorità indipendenti e tecniche di sindacato giurisdizionale
Roberto Giovagnoli
Consigliere di Stato.
Sommario:
1. Le tecniche di tutela risentono del potere esercitato. Necessità di operare una preliminare distinzione tra funzione di regolazione e funzione sanzionatoria. -
2. Il sindacato sugli atti di regolazione.
2.1. Il controllo sulla c.d. legalità procedimentale.
2.2. Sul piano sostanziale: il ridimensionamento della violazione di legge e la valorizzazione dell’eccesso di potere.
3. Il sindacato giurisdizionale sulla funzione sanzionatoria.
3.1. Il tema antico del sindacato sulla discrezionalità tecnica.
3.2. Le peculiarità della discrezionalità tecnica esercitata dalle Autorità indipendenti nell’esercizio del potere sanzionatorio.
3.3. Le suggestioni volte a circoscrivere il sindacato: il c.d. sindacato giurisdizionale “deferente”.
3.4. Le suggestioni che, valorizzando la natura quasi giurisdizionale della potestà sanzionatoria, propongono un sindacato pieno.
3.4.1. Le pecualiarità della potestà sanzionatoria e del giudizio di impugnazione delle sanzioni.
3.5. Il sindacato “pieno” sulle sanzioni delle Autorità indipendenti. La sentenza della CEDU nel caso Menarini.
3.6. Il sindacato sugli atti sanzionatori delle Autorità nella giurisprudenza amministrativa italiana.
1. Le tecniche di tutela risentono del potere esercitato. Necessità di operare una preliminare distinzione tra funzione di regolazione e funzione sanzionatoria.
Il sindacato esercitato dal giudice amministrativo sugli atti delle autorità si configura diversamente a seconda del tipo di potere che esse esercitano.
Volendo sintetizzare, possiamo senz’altro concentrare l’attenzione sulle due principali funzioni di cui sono titolari le autorità indipendenti: quella c.d. di regolazione e quella sanzionatoria.
Si tratta di funzioni profondamente diverse fra loro, e tale diversità si riflette inevitabilmente sulla questione concernente l’intensità e il tipo del sindacato giurisdizionale.
La regolazione è una funzione a metà strada tra attività normativa e attività amministrativa: essa si traduce nella predeterminazione delle regole di comportamento destinate a vincolare i comportamenti dei soggetti che operano nei mercati di volta in volta regolati.
La regolazione si sostanzia, quindi, un intervento ex ante dell’Autorità, volto anzitutto a fissare le regole asimmetriche per il funzionamento del mercato. Essa avviene attraverso la fissazione di indirizzi di carattere più o meno generale, aventi lo scopo di livellare il campo di gioco ed eliminare gli ostacoli alla creazione di un mercato efficiente ed effettivamente libero.
L’attività sanzionatoria, invece, presuppone un mercato già operante secondo modelli di libera concorrenza e vigila sull’osservanza delle regole: colpisce con interventi ex post i comportamenti (accordi o abusi di posizione dominante) che non sono in sintonia col libero gioco concorrenziale e che ne pregiudicano lo sviluppo (Cintioli).
L’attività di regolazione è normalmente espressione di un potere di scelta non legislativamente predeterminato (in quanto spesso i “regolatori” si muovono in uno spazio che non è occupato da fonti di rango primario) o, come spesso si dice, di un potere di policy, nel cui esercizio l’Autorità individua le regole che ritiene più adatte a soddisfare le esigenze del mercato.
L’attività sanzionatoria è, invece, tradizionalmente un’attività di carattere doveroso e vincolato, in cui si tratta di accertare la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria di volta in volta descritta dal legislatore.
Non vi è esercizio di poteri di policy, né esercizio di discrezionalità amministrativa in senso proprio.
2. Il sindacato sugli atti di regolazione.
Con riferimento all’attività di regolazione, le principali questioni che si pongono nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo all’intensità del sindacato giurisdizionale si ricollegano al classico tema del difetto di legalità sostanziale (in quanto il legislatore nell’attribuire i poteri di regulation spesso non ne delimita l’oggetto e non fissa i criteri generali cui essi devono attenersi) e al deficit di legittimazione democratica che sovente si contesta ai “regolatori”.
Sotto questo profilo, le posizioni della dottrina sono influenzate da visuali opposte: il bisogno di superare la politica e il bisogno di conservarla, il desiderio di pluralizzare l’ordinamento creando garanti nuovi, capaci di grande indipendenza funzionale verso l’indirizzo politico, il desiderio di dimostrarli, però, a loro volta democratici (Chieppa).
A fronte di chi nega le legittimità, allo stato del diritto vigente, di Autorità indipendenti dotate di poteri di regulation, altra parte della dottrina è pervenuta invece ritenere legittimi tali poteri sulla base di differenti tesi.
È stato affermato che la legittimazione delle autorità a quella che viene definita una normazione neutrale nasce dallo stesso mercato ed appare, in sostanza, agganciata ai principi costituzionali di cui agli artt. 21, 41, 47 e 97, oltre che ai principi comunitari della libera concorrenza della libertà di circolazione e di stabilimento, della tutela dell’investitore-risparmiatore.
Altri ancora fanno riferimento ad una riserva tecnica, che rappresenta il vero tratto distintivo della figura dell’ente pubblico, di cui, peraltro, le Autorità indipendenti potrebbero costituire uno sviluppo e un perfezionamento.
2.1. Il controllo sulla c.d. legalità procedimentale.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di poter superare il deficit di legalità sostanziale e di legittimazione democratica, valorizzando gli aspetti relativi alla c.d. legalità procedimentale e potenziando il sindacato sull’eccesso di potere.
È, infatti, affermazione ricorrente quella secondo cui gli atti di regolazione adottati dalle Autorità, proprio perché espressione di un potere che è carente sotto il profilo della legalità sostanziale e promananti da soggetti che sfuggono al tradizionale circuito della responsabilità politica, debbano essere adottati nel rispetto di un procedimento articolato, aperto al contraddittorio e alla partecipazione dei soggetti interessati.
Un elemento che contribuisce a legittimare i poteri regolatori delle Autorità indipendenti è costituito, quindi, dalle garanzie procedimentali, dall’applicazione del giusto procedimento: nei settori regolati dalle Autorità, in assenza di un sistema completo e preciso di regole di comportamento con obblighi e divieti fissati dal legislatore, la caduta del valore della legalità sostanziale deve essere compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della legalità procedurale, sotto forma di garanzie del contraddittorio.
Si è così instaurata una correlazione inversa tra legalità sostanziale e legalità procedurale: quanto meno è garantita la prima, per effetto dell’attribuzione alle Autorità indipendenti di poteri normativi e amministrativi in bianco, tanto maggiore è l’esigenza di potenziare le forme di coinvolgimento di tutti i soggetti interessanti nel procedimento finalizzato all’assunzione di decisioni che hanno un impatto così rilevante sull’assetto del mercato e sugli operatori (Chieppa).
In questo quadro, allora, è evidente che il sindacato giurisdizionale sugli atti di regolazione si è appuntato soprattutto sul rispetto delle citate garanzie procedimentali.
È così emerso un fenomeno in parte nuovo nel nostro ordinamento: la sottoposizione di un’attività sostanzialmente normativa al principio del giusto procedimento e del contraddittorio. Questo ha spesso contribuito a migliorare la qualità della regolazione, che si è arricchita anche grazie ai contributi conoscitivi che provengono dagli operatori di settore e dalle relative associazioni di categoria.
2.2. Sul piano sostanziale: il ridimensionamento della violazione di legge e la valorizzazione dell’eccesso di potere.
Sul piano del sindacato sostanziale, l’assenza di parametri rigidi volti a delimitare gli spazi di intervento del regolatore ha certamente determinato un ridimensionamento del vizio di violazione di legge, a fronte però di una crescente valorizzazione dell’eccesso di potere.
L’eccesso di potere è stato utilizzato tenendo conto della particolare natura (più normativa che amministrativa) dell’atto oggetto di sindacato. L’eccesso di potere è diventato così lo strumento per valutare il rispetto da parte dei regolatori dei principi della coerenza, proporzionalità, ragionevolezza, logicità, adeguatezza della regola imposta agli operatori di settore.
3. Il sindacato giurisdizionale sulla funzione sanzionatoria.
Diverse sono invece le questioni che si pongono con riferimento al sindacato sugli atti espressione di potere sanzionatorio.
In questo caso, i principali problemi nascono, come è noto, dal fatto che la norma sanzionatoria, nel descrivere la fattispecie sanzionata, fa spesso riferimento ai c.d. concetti giuridici indeterminati, la cui concreta integrazione richiede l’utilizzo di regole tecniche specialistiche (spesso fornite dalle scienze economiche) connotate dal requisito dell’elasticità e, quindi, dalla fisiologica opinabilità delle relative applicazioni. In altri termini, la norma che descrive il comportamento sanzionato implica l’utilizzo da parte dell’autorità sanzionante di valutazioni tecniche opinabili, ovvero, per usare una terminologia ormai invalsa, l’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica.
3.1. Il tema antico del sindacato sulla discrezionalità tecnica
In realtà, la questione relativa all’intensità del sindacato sulle valutazioni tecnico discrezionali dell’Amministrazione è questione “antica”, che ha ormai trovato una risposta “consolidata” nella giurisprudenza amministrativa, la quale, a far data dalla storica sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 601 del 1999, ha superato l’originaria assimilazione della discrezionalità tecnica alla discrezionalità amministrativa, segnando il passaggio da un sindacato giurisdizionale c.d. “estrinseco” (volto a censurare solo la c.d. insostenibilità agli occhi del profano) ad uno di tipo “intrinseco”, in cui si ammette che il giudice, pur senza potersi sostituire all’Amministrazione, possa, comunque, censurare le valutazioni tecniche che risultino inattendibili non solo agli occhi del profano, ma anche a quelli dell’esperto, attraverso il controllo dell’attendibilità del criterio tecnico utilizzato e del suo esito applicativo.
In altri termini, nella giurisprudenza amministrativa il tema del sindacato sulle valutazioni tecnico-discrezionali risulta ormai profondamente arato ed è pacificamente ammesso un tipo di sindacato giurisdizionale che si riserva di controllare l’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, pur riconoscendo che, a fronte di più soluzioni tutte fisiologicamente opinabili, ma allo stesso tempo tutte attendibili, debba prevalere la scelta tecnica compiuta dall’Amministrazione.
E così, a fronte di una norma che presenta margini di elasticità, e quindi compatibile con una pluralità di soluzioni tecniche, il giudice non deve imporre la soluzione tecnica in cui crede di più (in quanto altrimenti diventerebbe amministratore), ma solo verificare se l’Amministrazione ha rispettato quel margine di elasticità, collocandosi entro i confini dell’attendibilità.
3.2. Le peculiarità della discrezionalità tecnica esercitata dalle Autorità indipendenti nell’esercizio del potere sanzionatorio
A fronte di uno scenario giurisprudenziale che è ormai fortemente orientato verso questa soluzione, ci si può chiedere perché, a distanza di quasi quindici anni dalla svolta impressa con la sentenza n. 601 del 1999, il tema del sindacato sulle valutazioni tecnico discrezionali compiute dell’Autorità indipendenti in sede di accertamento della fattispecie sanzionatoria sia ancora così aperto, tanto da aver recentemente attratto anche l’attenzione della Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo.
Con riferimento ai poteri sanzionatori delle Autorità indipendenti il dibattito, in effetti, si arricchisce di alcune suggestioni, spesso di segno opposto fra loro, in nome delle quali si sostiene, in alcuni casi, che il sindacato debba essere più contenuto rispetto al modello generale sopra descritto, mentre in altri casi, sulla base di considerazioni di stampo totalmente diverso, si propone un sindacato più intenso rispetto a quello tradizionalmente esercitato dal giudice amministrativo sulle valutazioni tecnico discrezionali della P.A.
3.3. Le suggestioni volte a circoscrivere il sindacato: il c.d. sindacato giurisdizionale “deferente”
Le suggestioni volte a circoscrivere il sindacato sono quelle che enfatizzano le pecualirità che contraddistinguono le Autorità indipendenti, vale a dire la loro indipendenza, neutralità, paragiurisdizionalità e lo loro particolare competenza tecnica.
A sostegno di queste prospettazioni si adducono anche argomenti funzionali e genetici, ricordando, quanto a quest’ultimo profilo, come le Autorità fossero nate proprio come alternativa all’affidamento al giudice di talune funzioni diverse da quelle normalmente proprie dei giudici e caratterizzate da un così pronunciato grado di tecnicismo da richiedere attitudini e preparazione specializzate.
Sotto questo aspetto si coglie un controsenso nell’idea di consentire che le questioni che si era scelto di affidare, anziché al giudice, a degli organi particolarmente qualificati quanto a competenza tecnica, e formati con speciali cautele e garanzie quanto alla scelta dei loro componenti, venissero poi in ultima analisi sottoposte alla cognizione (sia pure eventualmente solo in via mediata e indiretta, sotto veste di giudizio sulle decisioni delle autorità) proprio a quei giudici alla cui giurisdizione era sembrato opportuno fare eccezione (Corletto).
Per questo aspetto, nella istituzione di autorità indipendenti si è talvolta perfino visto un espediente, giustificato però dalla natura delle cose, per aggirare il divieto costituzionale di istituire giudici speciali.
Da un’altra prospettiva si è sottolineata non tanto la specialità tecnica della materia loro attribuita, quanto piuttosto le particolarità soggettive delle nuove Autorità, le speciali garanzie di indipendenza loro assicurate, la loro particolare posizione di “dominae” degli specifici settori loro affidati, per ricavarne una oggettiva “refrattarietà” delle Autorità stesse alla sottoposizione alla normale cognizione giurisdizionale (Corletto).
In quest’ottica, quindi, si invoca da parte del giudice una particolare “deferenza” nei confronti delle Autorità indipendenti E’ significativo ricordare che il riferimento alla “deferenza” è contenuto nella nota sentenza della Suprema Corte americana che, nel caso Chevron, invitava i esplicitamente giudici proprio ad una maggiore deferenza nei confronti delle agencies, affermando che i giudici possono disattendere l’interpretazione che un’agenzia abbia dato ad una legge di cui ha il compito di curare l’applicazione, solo quando questa interpretazione sia contraria alla volontà chiara ed espressa del legislatore oppure sia irragionevole.
Si tratta di argomenti che, per quanto in gran parte oggi superati, hanno profondamente condizionato il dibattito sull’intensità del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Autorità indipendenti anche in Italia. Basti pensare che, nel corso dei lavori preparatori che poi portarono alla legge n. 205 del 2000, il d.d.l. governativo presentato (il 10 dicembre 1997) al Senato nella XIII legislatura con il n. 2934, e poi diventato, appunto, nel 2000, la legge n. 205, recava un art. 5 (scomparso al momento della prima approvazione del Senato, nell‟aprile 1999, ma fino all'ultimo, a quel che risulta, difeso dal relatore), il quale, sotto il titolo “Atti delle autorità amministrative indipendenti”, prevedeva che “Nell'esercizio della giurisdizione esclusiva, ove prevista nei confronti degli atti delle autorità amministrative indipendenti, il giudice amministrativo conosce, oltre che dell'incompetenza e della violazione di legge, esclusivamente del palese errore di apprezzamento e della manifesta illogicità del provvedimento impugnato”.
La formulazione proposta contrastava evidentemente con l'art. 113 Cost.. E tuttavia la tentazione di escludere dalla cognizione del giudice il vizio di eccesso di potere, o almeno di operare un ritaglio all’interno delle sue molteplici manifestazioni, per escludere quelle che più sembrano prestarsi a consentire valutazioni che sfiorano un giudizio di merito, pare ripresentarsi con una certa insistenza, quando si parla di giudizi sugli atti autorità indipendenti.
3.4. Le suggestioni che, valorizzando la natura quasi giurisdizionale della potestà sanzionatoria, propongono un sindacato pieno
A queste suggestioni, che valorizzando la natura e la genesi delle Autorità indipendenti, propongono un sindacato giurisdizionale particolarmente “deferente”, si contrappone, invece, un indirizzo che, traendo spunto dalla peculiarità che contraddistingue la funzione sanzionatoria in quanto tale, propone un sindacato di particolare ampiezza e intensità, ai confini del giudizio di merito.
Si tratta di una tesi che muove dalla convinzione che la funzione sanzionatoria debba essere tenuta distinta rispetto alla “comune” funzione amministrativa che si estrinseca nell’adozione di atti provvedimentali.
3.4.1. Le pecualiarità della potestà sanzionatoria e del giudizio di impugnazione delle sanzioni
Le sanzioni, infatti, sono atti particolari, adottati all’esito di un procedimento speciale (delineato, nei suoi tratti generali, dalla legge n. 689 del 1981) e sottoposte ad un particolare regime processuale (si impugnano, di regola, davanti al giudice ordinario, attraverso uno speciale rito, sempre disciplinato, nei suoi tratti generali, dalla l. n. 689/1981).
Queste peculiarità (procedimentali e processuali) possono spiegarsi in considerazione del fatto che le sanzioni amministrative, a rigore, pur essendo adottate da una pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere autoritativo, non sono, appunto, propriamente provvedimenti amministrativi.
Ciò che caratterizza immancabilmente il provvedimento amministrativo, invero, è il fatto che esso è sempre diretto alla cura di un interesse pubblico particolare, in nome del quale il potere è attribuito.
Anche quando il provvedimento amministrativo è fonte, per il suo destinatario, di conseguenze pregiudizievoli o afflittive, queste non sono mai lo scopo o la causa dell’esercizio del potere, ma la conseguenza indiretta di un atto che ha come obiettivo principale la cura di un interesse pubblico determinato.
Si sente parlare, spesso, di sanzioni c.d. ripristinatorie, proprio per indicare quei provvedimenti amministrativi che, pur primariamente diretti alla cura di un interesse pubblico determinato, producono, comunque, conseguenze afflittive per il privato.
L’espressione “sanzioni ripristinatorie” è in realtà ambigua: questi atti non sono sanzioni, ma comuni provvedimenti amministrativi, e l’effetto afflittivo che il privato subisce è solo la conseguenza indiretta della realizzazione dell’interesse pubblico che viene, attraverso il provvedimento, ripristinato (ad es. l’ordine di demolizione di un immobile abusivo, o le misure interdittive adottate nei confronti di chi, ad esempio, non ha più i requisiti per svolgere una determinata attività).
Non vi è dubbio, infatti, che le sanzioni c.d. ripristinatorie, siano devolute alla giurisdizione amministrativa e la loro impugnazione soggiaccia per intero alle regole del processo amministrativo.
Al contrario, la sanzione amministrativa in senso proprio ha esclusivamente finalità afflittiva: essa non è diretta a curare o realizzare un interesse pubblico particolare, ma solo a punire chi ha trasgredito le regole.
Alla base della sanzione vi è, quindi, l’interesse generale all’osservanza della legge e a punire chi la contravviene.
Questa è la ragione per la quale la funzione sanzionatoria viene distinta dalla comune funzione amministrativa.
La prima è diretta a punire, la seconda a curare l’interesse pubblico specifico individuato dalla norma che attribuisce il potere all’Amministrazione.
Queste considerazioni consentono di comprendere anche il particolare regime che l’ordinamento prevede per l’impugnazione delle sanzioni amministrative.
A differenza dei provvedimenti amministrativi, infatti, le sanzioni amministrative si impugnano di regola di fronte al giudice ordinario, mediante un particolare processo, di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, disciplinato dagli artt. 21 e ss. l. n. 689/1981.
La ragione di questa speciale “competenza” del giudice ordinario in materia di sanzioni amministrative è stata, a lungo, oggetto di dibattito.
Qualcuno vi rinviene un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice ordinario, che, in questa materia, sarebbe chiamato, eccezionalmente, a conoscere interessi legittimi.
Altri, invece, ritengono che questa sia semplicemente un’ipotesi in cui l’atto dell’Amministrazione incide su diritti soggettivi indegradabili, perché costituzionalmente rilevanti.
Si richiama, a tal proposito, l’art. 23 Cost. che sancisce che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non nei casi previsti dalla legge, con la conseguenza che la sanzione illegittima inciderebbe sul diritto costituzionalmente rilevante sancito dall’art. 23 Cost.
Probabilmente, come evidenzia la migliore dottrina (Severini), nessuna delle due impostazioni è corretta
. A fronte delle sanzioni amministrative non si configurano propriamente né interessi legittimi né diritti soggettivi, atteso che le sanzioni non sono espressione della funzione amministrativa (diretta alla cura di un interesse pubblico particolare) ma della diversa funzione afflittiva.
La dicotomia diritto soggettivo/interesse legittimo come criterio di riparto è stata, infatti, elaborata con riferimento a situazioni in cui la P.A. agisce con strumenti provvedimentali, diretti alla cura di un interesse pubblico specifico.
Quando ciò accade, si dice che vi è interesse legittimo quando l’ordinamento tollera che, in nome di quell’interesse pubblico, il privato possa, a certe condizioni, essere sacrificato, e vi è, invece, diritto soggettivo quando la tutela dell’interesse del privato è incondizionata e non ammette sacrifici nemmeno in nome dell’interesse pubblico.
Laddove, al contrario, come accade nel caso delle sanzioni, l’attività della P.A. non è diretta a realizzare l’interesse pubblico, ma solo a punire, quella distinzione (diritto soggettivo/interesse legittimo) risulta inapplicabile.
Del resto, come è stato ben evidenziato in dottrina (cfr. ancora Severini), “affermare – come spesso si usa – che di fronte alla sanzione punitiva la situazione del sanzionato è di un diritto soggettivo a non essere sottoposto al pagamento di somme al di fuori dei casi previsti dalla legge è al contempo un'evocazione rituale del criterio generale di riparto e una petizione di principio.
A dimostrare la petizione basta rovesciare l'argomento quando si è nella sicura giurisdizione amministrativa in tema di misure ripristinatorie: infatti la stessa pretesa al bene della vita integrità patrimoniale, che nel caso dell’illecito amministrativo si dice essere diritto soggettivo, lì si dice essere interesse legittimo; eppure vale per le misure pecuniarie per equivalente alternative alle misure ripristinatorie (come le sanzioni minori edilizie), pacificamente di cognizione del giudice amministrativo, la medesima pretesa alla loro non applicazione oltre i casi previsti dalla legge”.
A volte, del resto, di fronte ad atti aventi lo stesso contenuto dispositivo, la giurisdizione cambia, a seconda, che venga in considerazione la funzione sanzionatoria o la funzione di cura dell’interesse pubblico.
Da quanto precede, emerge che la giustificazione della giurisdizione del giudice ordinario sulle sanzioni amministrative non può essere ricercata nella natura della situazione giuridica soggettiva di cui il privato è titolare.
Sarebbe, infatti, difficile comprendere come mai, a fronte di atti che hanno lo stesso contenuto dispositivo (revisione della patente; interdizione), la natura della situazione soggettiva muti, a seconda della funzione sanzionatoria o meno dell’atto adottato.
Il fondamento della giurisdizione ordinaria sulle sanzione deve allora essere ricercato altrove.
Deve essere ricercato nella circostanza che il giudice ordinario è storicamente e tradizionalmente il giudice delle “punizioni” dei comportamenti umani, il principale titolare della funzione punitiva, funzione che solo provvisoriamente e per ragioni deflattive della giurisdizione viene svolta dalla p.a.
In altri termini, secondo questa prospettiva, l'ordinanza-ingiunzione è solo provocatio ad opponendum e rappresenta un intervento provvisorio destinato ad essere sostituito, su volontà del destinatario-opponente, dall’intervento del giudice: per quanto l'intento deflattivo della giurisdizione penale assegni in via interinale all’amministrazione l’applicazione di una sanzione (buona parte degli illeciti amministrativi sono reati depenalizzati), ogni potestà sanzionatoria punitiva resta in ultimo espressiva della giurisdizione (nulla poena sine iudicio), non per i beni incisi, quanto per il fatto stesso della valutazione e retribuzione dei comportamenti antigiuridici; la restituzione alla giurisdizione di quanto precariamente traslato nell'attività ad essa alternativa giustifica l'eccezionale ma strumentale potere di annullamento di un atto, a ben vedere solo soggettivamente, amministrativo (sul tema cfr. Severini).
Questa impostazione (la funzione sanzionatoria è solo formalmente amministrativa, ma sostanzialmente è giurisdizionale) consente di comprendere (oltre alla giurisdizione ordinaria) anche le peculiarità del processo di opposizione all’ordinanza-ingiunzione.
Qui si è in presenza di un giudizio sia rescindente e, se del caso, rescissorio.
Per questo secondo momento, l'art. 23 comma 11 l. n. 689 del 1981 prevede che con la sentenza il giudice possa accogliere l'opposizione, annullando in tutto o in parte l'ordinanza o modificandola anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta. La l. n. 689/1981 consentendo l'intervento giurisdizionale di riesame retroattivo all'interno dell'atto amministrativo interviene nel merito del rapporto punitivo, rende il giudice dominus della valutazione circa l'entità della pena e lo investe dello stesso potere di piena valutazione esercitato con l'ordinanza-ingiunzione: è un riesame non del solo atto, ma dell'intera pretesa punitiva.
Unica limitazione sostanziale a tale effetto devolutivo è che non è esteso alla reformatio in peius, perché il giudice non può d'ufficio, né su domanda riconvenzionale dell'amministrazione, aggravare la sanzione: il potere di modifica consegue al solo accoglimento del ricorso (in questi termini, Severini).
Ulteriori argomenti militano a favore di questa tesi.
Diversamente da quanto previsto a pena d'inammissibilità nel giudizio amministrativo, l’art. 22 l. n. 689, cit. non prevede che il ricorso debba contenere “i motivi su cui si fonda il ricorso” e l'art. 23 non contempla tra le cause d'inammissibilità dell'opposizione la mancata esposizione dei motivi. Inoltre l'art. 23 comma 12, secondo cui «il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente», invertendo l'onere della prova, attribuisce all'amministrazione convenuta la posizione sostanziale di attore, toglie all'ordinanza la presunzione di legittimità, pone l'amministrazione in posizione di parità nel contraddittorio processuale e dà al giudice la piena cognizione del fatto; e, replicando la formula assolutoria del processo penale vigente nel 1981 sull’assoluzione per insufficienza di prove, rende impossibile la qualificazione dell'azione introdotta dall’opponente come domanda di accertamento negativo” (così, ancora, Severini).
Proprio prendendo spunto dalla speciale connotazione in senso quasi paragiurisdizionale della funzione sanzionatoria, una parte della dottrina afferma, allora, che anche nel caso in cui le sanzioni siano eccezionalmente devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quest’ultimo dovrebbe esercitare un sindacato “pieno” al fine di verificare esattamente se sussistono i presupposti per l’esercizio della potestà punitiva.
Non si tratterebbe, infatti, di un sindacato sull’esercizio di un potere “altrui” (come accade per la tradizionale funzione amministrativa), ma dell’esercizio diretto di un potere “proprio” (quello appunto punitivo).
Sarebbe, quindi, il processo, più che il procedimento amministrativo, la sede naturale per accertare se sussistono i presupposti dell’illecito amministrativo e, quindi, per irrogare la sanzione.
3.5. Il sindacato “pieno” sulle sanzioni delle Autorità indipendenti. La sentenza della CEDU nel caso Menarini
Questa particolare ampiezza del sindacato varrebbe, allora, pure nell’ipotesi di poteri sanzionatori esercitati dalle Autorità indipendenti, anche nel caso in cui la norma che descrive il comportamento sanzionato rinvia a clausole generali o a concetti giuridici indeterminati la cui integrazione richiede l’esercizio di discrezionalità tecnica.
Del resto, in questa prospettiva, volta a valorizzare la particolarità della funzione sanzionatoria, si spiega anche la questione recentemente esaminata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Menarini, in cui si è posto proprio il problema se il tipo di sindacato esercitato dal giudice amministrativo italiano sulle sanzioni delle Autorità indipendenti e, segnatamente, su quelle irrogate dall’AGCM possa considerarsi in linea con le previsioni della Convenzione e, in particolare, con il diritto ad una tutela piena ed effettiva, riconosciuto dall’art. 6, § 1, della Convenzione, a chiunque subisca l’inflizione di una punizione.
La sentenza Menarini solleva numerosi aspetti di interesse.
La Corte europea, come si è accennato, parte dal presupposto che le sanzioni amministrative irrogate dall’AGCM costituiscono, ai sensi della Convenzione, “pene” e come rientrano nel campo di applicazione dell’art. 6, § 1, CEDU, il quale prevede che:“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
La Corte ha rilevato che nell’ordinamento italiano gli illeciti anticoncorrenziali non possiedono formalmente natura penale, in quanto essi sono sanzionati non ai sensi di norme penali ma ai sensi della Legge n. 287/1990 “per la tutela della concorrenza e del mercato”.
Nondimeno, le sanzioni irrogate dall’AGCM possiedono sostanzialmente carattere penale, secondo la Corte, in quanto perseguono il duplice obiettivo di prevenire e reprimere le condotte anticoncorrenziali realizzate dalle imprese, obiettivo emerso – nella fattispecie – considerando la gravità della sanzione (6 milioni di euro) dotata, dunque, di carattere punitivo.
L’applicazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione implica il diritto del soggetto sanzionato di accedere ad sindacato giurisdizionale “pieno” sulla fondatezza dell’accusa contesta.
Di qui la necessità di verificare se il sindacato esercitato dal giudice amministrativo abbia quei caratteri di pienezza necessari per assicurare il rispetto della Convenzione.
La Corte europea, come è noto, è giunta alla conclusione positiva, ritenendo che nel caso concreto il giudice amministrativo non si era limitato ad un semplice controllo di legittimità, in quanto i giudici amministrativi avevano potuto verificare se, in relazione alle particolari circostanze della causa, l’AGCM aveva fatto uso appropriato dei suoi poteri, nonché l’adeguatezza e la proporzionalità della misura inflitta e anche controllarne le valutazioni di ordine tecnico.
In conclusione i giudici europei hanno riconosciuto che il controllo effettuato sulla sanzione è stato di piena giurisdizione, in quanto sia il TAR sia il Consiglio di Stato hanno potuto verificare l’adeguatezza della pena all’infrazione commessa e avrebbero anche potuto sostituirla.
In particolare, la Corte ha osservato che il Consiglio di Stato, andando al di là di un controllo «esterno» sulla coerenza logica della motivazione della AGCM, ha respinto un’analisi dettagliata dell’adeguatezza della sanzione in relazione a parametri rilevanti, come la proporzionalità della sanzione stessa.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte, con sei voti contro uno, ha dichiarato non sussistente la violazione dell’articolo 6, § 1 della Convenzione.
Di particolare interesse è ancora l’opinione dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque, secondo cui, invece, l’art. 6 non sarebbe stato rispettato in quanto “i giudici amministrativi hanno dato un beneplacito formale e hanno realizzato un controllo «interno» che non costituisce una garanzia reale e pratica per i soggetti già condannati.
Una lettura attenta dei motivi della decisione sui fatti rivela che la sentenza del TAR contiene più di 60 citazioni e riferimenti ai paragrafi della decisione dell’AGCM, e quella del Consiglio di Stato più di quaranta citazioni e riferimenti al suddetto testo.
Gli organi giurisdizionali non fanno che ripetere uno dopo l'altro gli argomenti già sostenuti dall’AGCM, rinviando con notevole enfasi ai paragrafi della decisione amministrativa.
La presunta analisi degli argomenti del ricorso della società è stata semplicemente un’adesione formale da parte dei giudici alla valutazione tecnica «indiscutibile» e incontestabile della AGCM.
In definitiva non vi è stata alcuna valutazione indipendente, concreta e dettagliata di illegittimità e responsabilità del comportamento della ricorrente.
In conclusione, il controllo del giudice amministrativo è stato solo formale, perché non ha analizzato il nucleo della motivazione della decisione amministrativa di condanna, vale a dire la valutazione tecnica dei fatti contestati alla ricorrente. La ricorrente è stata privata di un'analisi autonoma dei motivi del suo ricorso”.
La sentenza Menarini, pur escludendo, nel caso di specie, la violazione della CEDU (nonostante la dissenting opinion del giudice Pinto), sembra, tuttavia, fondarsi sul principio che il sindacato sulle sanzioni non può essere assimilato al sindacato di legittimità sui “comuni” provvedimenti amministrativi.
Partendo dalla qualificazione della sanzioni AGCM in termini di “pena”, la Corte evoca la necessità di un sindacato pieno, non di sola legittimità, e va a verificare se, in concreto, questo tipo di sindacato sia stato esercitato.
Pur escludendo nella fattispecie specifica la violazione della Convenzione, certamente questa sentenza rappresenta un argomento a sostegno delle tesi che, proprio valorizzando la peculiarità della funzione sanzionatoria, affermano la necessità di un sindacato più intenso rispetto a quello normalmente esercitato sui “comuni” provvedimenti amministrativi.
3.6. Il sindacato sugli atti sanzionatori delle Autorità nella giurisprudenza amministrativa italiana
Così ricostruito il quadro dottrinale e giurisprudenziale, dobbiamo allora verificare quale sia il tipo di sindacato che il g.a. esercita sulle sanzioni dell’AGCM e chiederci se esso, effettivamente, rispetti i parametri imposti dalla CEDU.
Il giudice amministrativo italiano ha progressivamente approfondito la questione, mosso dalla ricerca di un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale e di evitare che il giudice possa esercitare direttamente un potere in materie rimesse alle Autorità garanti, la correttezza del cui operato deve essere verificata dal giudice.
Nelle prime decisioni pronunciate soprattutto in materia antitrust, è ricorrente l’affermazione del principio, secondo cui i provvedimenti dell'Autorità sono sindacabili, in giudizio, per vizi di legittimità, e non di merito.
Purché si rimanga nell'ambito dei vizi di legittimità, il sindacato giurisdizionale non incontra limiti, potendo essere esercitato, oltre che in relazione ai vizi di incompetenza e violazione di legge, anche in relazione a quello di eccesso di potere in tutte le sue forme.
Allorché, peraltro, viene dedotto, avverso i provvedimenti dell'Autorità, il vizio di eccesso di potere, il giudice, nell'ambito del suo sindacato, circoscritto alla sola legittimità dell'atto, e non esteso al merito delle scelte amministrative, può solo verificare se il provvedimento impugnato appaia logico, congruo, ragionevole; correttamente motivato e istruito, ma non può anche sostituire proprie valutazioni di merito a quelle effettuate dall'Autorità, e a questa riservate.
Successivamente, il Consiglio di Stato ha riconfermato tale orientamento, fornendo alcune ulteriori precisazioni ed evidenziando che i provvedimenti dell’Autorità antitrust hanno natura atipica e sono articolati in più parti, che corrispondono alle fasi del controllo svolto dall’Autorità: a) una prima fase di accertamento dei fatti; b) una seconda di “contestualizzazione” della norma posta a tutela della concorrenza, che facendo riferimento a “concetti giuridici indeterminati” (quali il mercato rilevante, l’abuso di posizione dominante, le intese restrittive della concorrenza) necessita di una esatta individuazione degli elementi costitutivi dell’illecito contestato; c) una terza fase in cui i fatti accertati vengono confrontati con il parametro come sopra “contestualizzato”; d) un ultima fase di applicazione delle sanzioni, previste dalla disciplina vigente.
Ciò premesso, il Consiglio di Stato esclude che il controllo di legittimità possa precludere al giudice amministrativo la verifica della verità del fatto posto a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità, in quanto a seguito del progressivo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto al rapporto controverso (pretesa fatta valere, secondo alcuni) deve ormai ritenersi superato quell’orientamento che negava al giudice amministrativo l’accesso diretto al fatto, salvo che gli elementi di fatto risultassero esclusi o sussistenti in base alle risultanze procedimentali.
Sulla base di tale orientamento, quindi, i fatti posti a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità possono senza dubbio essere pienamente verificati dal giudice amministrativo sotto il profilo della verità degli stessi; ciò presuppone la valutazione degli elementi di prova raccolti dall’Autorità e delle prove a difesa offerte dalle imprese senza che l’accesso al fatto del giudice possa subire alcuna limitazione.
Alla fine, quindi, il giudice amministrativo esercita sulle valutazioni tecnico-discrezionali dell’Autorità un sindacato intrinseco(riutilizzando le stesse regole specialistiche utilizzate dall’Autorità), ma non sostitutivo, limitandosi a verificare se la soluzione tecnica individuata dall’Amministrazione sia attendibile, id est serientri nell’ambito dei margini di elasticità consentiti dal concetto giuridico indeterminato.
Tale tecnica di controllo era stata inizialmente qualificata, dalla stessa giurisprudenza amministrativa, in termini di controllo “debole”, quasi a ipotizzare l’esistenza e la possibilità di un controllo “forte”, che il giudice si rifiutava, tuttavia, di esercitare.
Ė evidente che la contrapposizione tra “controllo debole” e “controllo forte” presentava elementi di ambiguità, lasciando ipotizzare appunto la possibilità di un sindacato giurisdizionale più intenso ma non esercitato.
Proprio prendendo atto di questa ambiguità la più recente giurisprudenza amministrativa ha successivamente specificato che sindacato esercitato sull’attendibilità tecnica della valutazione effettuata dall’Autorità non è affatto “debole”, ma è l’unico consentito al giudice, traducendosi, infatti, l’ipotizzato “controllo forte” in una inammissibile sostituzione del giudice all’Amministrazione.
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale nazionale, dobbiamo chiederci se esso rispetto il principio dell’effettività della tutela, anche alla luce dei vincoli derivanti dall’art. 6, § 1 della CEDU.
La risposta non può essere che positiva.
A tale conclusione si può giungere proprio valorizzando i due elementi di specialità che connotano le sanzioni irrogate dalle Autorità indipedenti.
Da un lato, infatti, è certamente vero che la sanzione sia normalmente sottoposta ad un sindacato giurisdizionale più intenso, alla luce dei principi desumibili dalla stessa legge n. 689/1981, che configurano un sindacato pieno sul fatto e sui presupposti della potestà punitiva. Ed è altrettanto vero che tale maggiore intensità del sindacato si giustifica in ragione della natura ibrida del potere sanzionatorio che presenti alcuni caratteri propri della giurisdizione, in particolare della giurisdizione punitiva.
Dall’altro lato, però, proprio valorizzando i caratteri e la natura (da molti definita persino “paragiurisdizionale”) delle Autorità indipendenti (almeno di quelle i cui atti sono devoluti alla giurisdizione esclusiva del G.A.), si può, con riferimento alle sanzioni dalle stesse irrogate, concludere nel senso che il legislatore abbia voluto attribuire ad esse la titolarità del potere sanzionatorio, ritenendole i soggetti meglio in grado di accertare e valutare la sussistenza della fattispecie di illecito.
Con riferimento alle Autorità indipendenti sembrano, quindi, non utilizzabili le considerazioni che depongono a favore di un sindacato tendenzialmente pieno (sul rapporto più che sull’atto) sulla sanzione.
Nel caso delle sanzioni delle Autorità indipendenti, deve escludersi che il giudice amministrativo, adito in sede di impugnazione del provvedimento sanzionatorio, si riappropri, in sede processuale, di una potestà punitiva di cui ha la piena titolarità (e che solo provvisoriamente è stata “delegata” all’Amministrazione).
In questo caso, al contrario, la potestà sanzionatoria è attribuita all’Autorità indipendente come funzione sua propria, attribuzione giustificata proprio in nome delle caratteristiche di tecnicità, indipendenza, neutralità che connotano tale soggetto.
Si tratta, quindi, del tradizionale sindacato sul corretto esercizio di un potere “altrui”, che, pertanto, deve svolgersi senza sostituirsi al soggetto titolare del potere, nei limiti tipici del tradizionale giudizio di legittimità.
Questa del resto sembra anche la ratio che sta alla base dell’attribuzione delle impugnazioni delle sanzioni di alcune Autorità indipendenti alla giurisdizione esclusiva del g.a. e la conseguente sottoposizione ad un regime processuale (quello tipico dell’impugnazione dei provvedimenti) che differisce notevolmente dal regime processuale delineato dalla legge n. 689 del 1981 per l’opposizione alle ordinanze-ingiunzione.
Non depone in senso contrario la circostanza che oggi il codice del processo amministrativo abbia previsto espressamente la giurisdizione estesa al merito sulle sanzioni delle Autorità indipendenti (art. 134, lett. c), perché con tale norma, come pacificamente si ritiene, il legislatore ha solo voluto esplicitare il potere del giudice amministrativo di rideterminare nel quantum la sanzione.
La giurisdizione estesa al merito riguarda, quindi, solo l’importo della sanzione, ma non anche la valutazione di esistenza dei suoi presupposti.
In relazione a questo aspetto il sindacato è certamente pieno (essendo pieno il potere del giudice amministrativo di accertare i fatti), ma è appunto un sindacato che risente delle regole della giurisdizione amministrativa nel cui ambito si iscrive, regole che consentono al giudice di valutare la legittimità dell’azione amministrativa, ma che impediscono al giudice di appropriarsi della funzione dell’Amministrazione, sostituendosi ad essa nel suo esercizio.
Il pieno accesso al fatto e il sindacato altrettanto pieno sull’attendibilità della valutazione delle Autorità indipendenti anche sotto il profilo tecnico consentono certamente di ritenere tale tecnica di tutela in linea con quanto esige l’art. 6 §1 della CEDU.
Convegno 28 febbraio 2013
Le Autorità Amministrative Indipendenti
Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati
Palazzo Spada - Piazza Capo di Ferro, 13 Roma
La funzione di vigilanza e regolazione dell’Autorità sui contratti pubblici
Conclude:
Franco Gaetano Scoca
Già Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Roma ‘La Sapienza’
Nel corso del convegno sarà presentato il volume di Cristiano Celone
‘La funzione di vigilanza e regolazione dell’Autorità sui contratti pubblici’ Milano, 2012.
Ultimo aggiornamento 21/10/2021, 13:42
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Convegno 28 febbraio 2013 - ore 15
Palazzo Spada - Piazza Capo di Ferro, 13 - Roma